Perché non piace la riforma del cinema
È stato Nanni Moretti, durante l’ultima mostra d’arte cinematografica di Venezia, a dare risalto mediatico alla nuova legge sul cinema. Durante la premiazione per il miglior restauro, andato al suo Ecce Bombo, del 1978, il regista ha detto: «Ai colleghi produttori e registi vorrei dire che dovremmo essere più reattivi nei confronti della nuova pessima legge sul cinema».
Perché tale giudizio? Il punto centrale è relativo al tema del Tax Credit, riguardante le agevolazioni fiscali e i crediti d’imposta, per il quale il governo ha recentemente stabilito paletti più stringenti: norme più vincolanti per accedervi, requisiti più complessi ritenuti insostenibili per le produzioni indipendenti.
Lo scopo? Quello di diminuire i finanziamenti, considerati eccessivi, per opere che spesso non arrivano al pubblico in sala, o se ci arrivano lo fanno in modo marginale. Da qui la reazione, il dissenso di chi ritiene questa misura penalizzante per le piccole, ma importanti, realtà del cinema italiano.
Le cosiddette produzioni minori, appunto. Capaci però di lavorare (più) liberamente da un punto di vista espressivo, creativo, rispetto alla corrente del mercato che (più) facilmente modella la forma mentis delle produzioni mainstream, legate a un entertainment che fa rima con botteghino. Realtà nascoste, emergenti, magari giovani, resistenti all’omologazione dell’offerta e potenzialmente in grado di offrire al cinema nuovi autori e linguaggi.
In sostanza, finanziare piccoli film, secondo i detrattori della nuova legge, può soccorrere l’arte, proteggerla, anche se c’è un rischio economico, congenito ma inevitabile, nel farlo. Il necessario sostegno al cinema, può, inoltre, in modo non contraddittorio ma complementare rispetto alla salvaguardia dei “piccoli”, dare sostegno a quel settore che è anche industria, ovvero a quel cinema attraverso il quale si mette in moto una filiera che offre sostegno alle famiglie in modo diretto (lavoratori dello spettacolo) e indiretto: ristoranti, alberghi, trasporti e via dicendo. Un circolo virtuoso nel quale entrano anche gli investitori stranieri, le grandi produzioni non italiane che sfruttano il nostro “paesaggio” e insieme le nostre convenienti leggi.
In questo clima di incertezza e instabilità, nel quale altri volti del cinema hanno detto la loro, è nato un comitato di protesta riunito nella frase: “Siamo ai titoli di coda”. Durante la premiazione dei Nastri D’Argento, lo scorso luglio, alcuni rappresentanti hanno letto un comunicato che iniziava in questo modo: «Cinema anno zero. Eccoci qua. Siamo gli stessi che sono scesi in piazza il 4 giugno. In diverse città, non solo a Roma. Lo abbiamo fatto per manifestare la crisi del nostro comparto. Siamo i lavoratori del cine-audiovisivo. Siamo quelli che non temono le lunghe notti, le giornate torride, gli inverni gelidi, le piogge torrenziali e siamo quelli che spesso non sanno dare un orario a chi ci aspetta a casa. Viviamo lo stesso tutto questo con passione e lottando con creatività contro il tempo».
Dopo aver elencato altre difficoltà, il rappresentante del gruppo salito sul palco, ha aggiunto: «Non ci spaventa più nulla, tranne che perdere un sacrosanto diritto: quello del lavoro». La materia è corposa, la questione complessa, il problema delicato, fatto di molti numeri da mettere sul tavolo per entrambe le parti. Ci vorrebbe troppo spazio per elencarli tutti, certo è che il cinema, il buon cinema, è uno strumento multiuso per la società: economico, emotivo, sociale, politico, relazionale, culturale.
È un amico, un compagno di viaggio per riflettere, emozionarsi, conoscere, crescere, per abbandonarsi al piacere fertile del racconto e dell’arte. Certo è che il cinema è una forma di dialogo che un Paese, nel nostro caso l’Italia, sviluppa con il resto del mondo. Un veicolo attraverso il quale il mondo viaggia in noi, ci conosce ed entra in relazione, fisica o mentale, con la nostra terra. Certo è, soprattutto, che il cinema è fatto dalla gente e – può sembrare un’ovvietà, retorica, ma per chi vive il problema sulla propria pelle non lo è affatto – è alla gente, ai lavoratori, ai più fragili, che bisogna pensare quando ci si trova davanti alla scrittura o alla riformulazione, alla revisione o all’ammodernamento di una legge. Qualunque legge.
L’augurio, preghiera, esortazione, richiesta alle parti in causa, è quello di salvaguardare le persone prima di tutto, e subito dopo l’arte. Bene assoluto delle persone. Attraverso gli invincibili valori dell’onestà, dell’umanità e dell’empatia.