Famiglie in carcere, qual è il posto dei bambini?
Ultimamente si sente parlare molto spesso dei disagi della vita in carcere che sfociano in protesta, quando non in violenza. Ma si sente parlare anche di mamme e bambini in carcere in situazioni al limite della decenza. Questo mi fa tornare alla mente esperienze del lavoro che ormai mi sembrano periodi lontani ora che arricchisco l’esercito dei pensionati.
Avevo la responsabilità di tre quartieri a forte densità di multi-problematicità, disagio sociale e anche violenti. Tutti quartieri periferici al confine della città. In particolare, la storia cui farò cenno adesso, si svolge in una strada che destava abbastanza “timore”, fatta di “palazzoni”, di case popolari che potremmo definire una vera e propria “piazza di spaccio”. La famiglia in questione era una sorta di dinastia di spacciatori dalla bisnonna alla nonna, dalla mamma alla figlia, compresi mariti e fratelli.
Mi fu segnalata la figlia, che già seguivo prima della detenzione, che aveva in cella il figlio di tre anni. All’epoca nel sistema carcerario non c’erano misure che prendessero in carico le mamme con bambini, inoltre sia la nonna che il marito erano detenuti. Quindi, l’unica alternativa possibile era tenerlo con sé in cella. L’unico gioco del bimbo era sbattere da una parete all’atra correndo. Un vero tormento! Qui scattò la creatività, o la “generatività”.
Conoscevo una famiglia che abitava a qualche centinaio di metri dal carcere. La mamma era impegnata in Parrocchia con la San Vincenzo, dei tre figli, una era pedagogista. Mi venne l’idea di far iscrivere il bambino in un asilo nido e affidarlo alla famiglia per l’altra parte del giorno, per riportarlo in carcere nel tardo pomeriggio dalla mamma per non interrompere il loro rapporto.
Ovviamente dovevo parlare con la madre per farmi “approvare” il progetto. Ricevetti il permesso per il colloquio rapidamente e, a dispetto degli scenari da film poliziesco americano con la sala colloqui, a me toccò l’infelice colloquio nella cella della madre.
Quindi fui introdotto dentro il reparto femminile del carcere con le urla, gli “inviti” e un dedalo di parolacce, le più fiorite, fino alla cella della signora. Dopo questa esperienza da capogiro e scombussolamento emotivo parlai con la madre che non ebbe esitazione a firmare il permesso concordato. Quindi le caselle si collocarono nei tasselli giusti: il bambino uscì dalla cella, andò all’asilo nido. Passava il pomeriggio con la famiglia e infine tornava a sera dalla mamma.
L’esperienza entrò senza richiesta nelle cronache destando molta meraviglia in quanto esperienza fra le prime. Tutto andò per il meglio per vario tempo. Le cronache successive riportano che il bambino divenuto giovane fu contagiato dal virus familiare di spaccio, ma questa è un’altra storia.
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