Sudan, i civili hanno urgente bisogno di protezione

La missione delle Nazioni Unite in Sudan ha pubblicato il suo primo rapporto. Per gravi violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e contro l'umanità, la missione Onu ha chiesto il dispiegamento di una forza indipendente e imparziale per proteggere i civili.
Manifestanti per la pace in Sudan di fronte alla sede di Ginevra delle Nazioni Unite, dove ad agosto 2024 si è tenuto un vertice internazionale per cercare la cessazione delle ostilità. Foto EPA/SALVATORE DI NOLFI

Il conflitto in Sudan è alimentato da un costante flusso di armi, con un forte impatto regionale sui diritti umani, ha dichiarato lo scorso luglio in un briefing il direttore senior di Amnesty International, Deprose Muchena.

L’Ong internazionale dedicata alla difesa dei diritti umani ha scoperto che armi e munizioni di recente fabbricazione o recentemente trasferite da Cina, Russia, Serbia, Turchia, Emirati Arabi Uniti (Eau) e Yemen entrano in grandi quantità in Sudan e, in alcuni casi, poi dirottate nel Darfur, in flagrante violazione dell’embargo sulle armi esistente per il Darfur.

A quasi 18 mesi dallo scoppio dei combattimenti, Amnesty International ha documentato vittime civili sia in attacchi indiscriminati che in attacchi diretti specificamente ai civili. La situazione umanitaria è diventata orribile, con quasi 25 milioni di persone che necessitano di assistenza. Alcune delle violazioni del diritto umanitario internazionale commesse dalle parti in conflitto sono assimilabili a crimini di guerra. Si stima che oltre 11 milioni di persone siano sfollate pur restando all’interno del Paese e che milioni di persone siano a rischio immediato di carestia.

Gli sforzi delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana (Ua) per mediare la pace in Sudan proseguono fin dallo scoppio della guerra nell’aprile 2023, e si sono concentrati sul raggiungimento di un cessate il fuoco. Finora non hanno avuto successo.

Si moltiplicano le richieste di affrontare i molti problemi di sicurezza immediata dei civili. Sebbene le comunità abbiano fatto molto per facilitare l’auto-protezione, continuano a essere prese di mira e occorre fare di più.

Per molti anni, il Sudan ha avuto una presenza di una forza di peacekeeping. Dal 2014 al 2020, l’Onu e l’Ua hanno guidato congiuntamente una presenza ibrida di mantenimento della pace in Darfur. A questa è seguita una missione politica guidata dalle Nazioni Unite. Tuttavia, dall’uscita di scena di quest’ultima, nel febbraio 2024, non c’è più alcuna realtà regionale o internazionale in Sudan responsabile della protezione dei civili.

Il dispiegamento di una forza di pace per proteggere i civili è fattibile o almeno consigliabile? Jenna Russo, direttrice della ricerca dell’International Peace Institute (Ipi), la cui ricerca si concentra sulla protezione dei civili nei conflitti armati e sul contributo delle Nazioni Unite ai processi di pace, ha condiviso questa settimana le sue riflessioni a The Conversation.

Tra le altre cose, Jenna Russo ha detto che «è importante affermare che (quasi) nessuno sta suggerendo il dispiegamento di un’operazione di mantenimento della pace su larga scala e multidimensionale. Piuttosto, alcuni – tra i quali la missione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite – chiedono un dispiegamento più limitato di forze di sicurezza per proteggere i civili. Le autorità sudanesi, tuttavia, hanno respinto questa raccomandazione».

Traendo spunto dalle lezioni del passato, Jenna Russo propone alcune possibili opzioni, tra le quali la migliore appare il sostegno diretto e l’empowerment delle comunità. «Le lezioni precedenti fanno riflettere anche sul dispiegamento di una missione di pura protezione. Ad esempio, la missione Onu in Ciad è stata dispiegata per proteggere i civili dalla violenza proveniente dal vicino Sudan. Tuttavia, non avendo un mandato politico, non ha avuto influenza sulle autorità ed è stata cacciata dal governo dopo meno di tre anni».

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione africana hanno entrambi chiesto ai rispettivi segretariati di preparare raccomandazioni sulla protezione dei civili in Sudan.

Anche se i politici potrebbero trovarsi con poche opzioni valide, Jenna Russo afferma: «In primo luogo, le Nazioni Unite e l’Unione Africana dovrebbero considerare le opzioni per l’invio di una forza di protezione fisica in Sudan, per mantenere sicure le aree per gli sfollati e facilitare la consegna degli aiuti. Tuttavia, i responsabili politici dovranno considerare come tale presenza possa essere collegata agli sforzi politici. Questo è necessario per fornire agli attori della protezione una leva per mantenere l’accesso e fare pressione sui responsabili».

In secondo luogo, «i soggetti coinvolti nel processo politico devono integrare la protezione nei loro sforzi di mediazione. Il periodo che precede i processi negoziali può essere un momento cruciale per i mediatori per concentrarsi sulla protezione dei civili». Questo perché le parti in guerra possono aumentare l’uso della violenza per migliorare le loro posizioni di contrattazione. I mediatori possono anche includere negli accordi un linguaggio specifico – relativo alla violenza sessuale e di genere, ad esempio – che può essere usato in seguito per ritenere le parti responsabili del loro comportamento.

In terzo luogo, la direttrice della ricerca dell’Ipi considera il livello internazionale e suggerisce che gli Stati membri esercitino pressioni diplomatiche sulle parti in guerra e sugli Stati terzi che le sostengono. In particolare, gli Emirati Arabi Uniti (Eau) sono stati coinvolti nella fornitura di armi alle Forze di supporto rapido sudanesi, sebbene neghino tale accusa. Anche altri Paesi della regione e non solo sono interessati all’esito della guerra civile sudanese, dato il petrolio e le altre risorse provenienti dal Paese. «L’ammontare del denaro legato al conflitto è un ostacolo importante alla pace. Tuttavia, a meno che le potenze esterne non esercitino pressioni diplomatiche per fermare gli sforzi di armare entrambe le parti in guerra, è improbabile che il conflitto si fermi».

Infine, «si dovrebbe fornire maggiore assistenza agli sforzi di auto-protezione attuati dalle comunità. Il blackout delle comunicazioni ha gravemente ostacolato le capacità dei civili di proteggersi da soli e deve finire. Anche i programmi in denaro sono fondamentali per aiutare le persone ad acquistare cibo e altre forniture salvavita».

Concludendo afferma: «Nonostante le difficoltà a raggiungere alcune comunità in mezzo ai combattimenti in corso, occorre fare il possibile per continuare a integrare le loro prospettive nella pianificazione della protezione».

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