Macron sceglie Barnier: “La France c’est moi”
Può sembrare irriverente una tale citazione, e la cosa potrebbe irritare non pochi francesi profondamente repubblicani. Eliminiamo ogni equivoco: la Francia è una delle grandi democrazie europee, l’eredità della Rivoluzione francese e la fine della monarchia sono ineluttabili, nessuno pensa che un re possa tornare a guidare Parigi (e tantomeno Versailles), ma è anche vero che ogni Paese ha una sua natura profonda che emerge al di là della forma di governo che si è dato nei secoli.
La Francia è una delle democrazie più mature d’Europa, basti pensare a come è riuscita ad uscire dalle crisi coloniali e, più recentemente, dalla crisi del terrorismo e delle banlieue, ma ha mantenuto il bisogno di un capo supremo all’altezza, che prenda le decisioni per il popolo, in modo simile a quanto avviene in altre democrazie, come quella degli Stati Uniti. La Francia ha tanti problemi, in particolare relativi all’economia e all’immigrazione, ma ha anche enormi capacità produttive e un’amministrazione statale di tutto rispetto, oltre a un patrimonio culturale tra i più ricchi d’Europa e del mondo. E via dicendo.
Detto questo, la vicenda politica di questi ultimi mesi, dal momento della grave sconfitta dei partiti al governo, macronisti in testa, alle ultime elezioni europee, pare un feuilleton più all’italiana che alla francese: frammentazione del panorama politico, smarrimento degli elettori, politica giocata più sugli schermi che dentro i palazzi, ultimatum che vengono immancabilmente disattesi, gelosie e fraintendimenti, persino una lunga serie di inedite consultazioni partitiche da parte del presidente che hanno lasciato a bocca aperta il Paese. Anche perché, non dimentichiamolo, il sistema delle elezioni presidenziali francese permette, con i suoi doppi turni, di portare all’Eliseo un presidente che ha meno di un quarto delle preferenze dell’elettorato (i voti espressi direttamente al primo turno quando i candidati sono molti). È il caso proprio di Macron, che non è mai stato amato dai francesi: De Gaulle, Pompidou, Mitterrand, Chirac stesso godevano di ben altro livello di apprezzamento, pur avendo avuto le loro gatte da pelare.
Dal momento delle elezioni europee, Macron ha inanellato una serie di decisioni che hanno scontentato un po’ tutti, ad iniziare dallo scioglimento anticipato delle Camere, dettato dal timore di una deriva verso l’estrema destra del Paese. Ma i risultati hanno mostrato una Francia ancora più divisa di prima. Il presidente ha scontentato in particolare quel cartello di sinistra che è risultato il più votato nelle urne nello scorso giugno, ma che Macron ha ignorato e cercato di scompaginare, anche perché profondamente allergico al massimalismo gauchista del suo leader Mélenchon. Col risultato di riuscire addirittura nell’impresa di saldare i partiti del cartello di sinistra, che hanno presentato una loro candidata unica alla carica di primo ministro, la dirigente del comune di Parigi Lucie Castets, dopo mesi di veti e controveti. E ha finito con il conferire l’incarico di formare il nuovo governo an un vecchio lupo della politica transalpina, Michel Barnier, savoiardo, già negoziatore Ue per la Brexit, che a 73 anni forse diventerà il primo ministro più anziano nella storia moderna francese, succedendo a Gabriel Attal, che invece era stato il più giovane a ricoprire quell’incarico.
L’articolo 5 della Costituzione francese afferma che il presidente deve garantire con le sue decisioni il funzionamento dei poteri pubblici e la continuità dello Stato. In base all’articolo 8, poi, il presidente nomina il primo ministro, mentre l’articolo 49 consente ai deputati di far cadere un governo mediante il voto di una mozione di censura approvata a maggioranza assoluta. Macron ha usato di queste sue prerogative, rifiutando di ottemperare alla prassi di affidare il mandato, anche in modo esplorativo, al vincitore delle elezioni. Ma deve assicurarsi che il nominato non venga immediatamente bocciato dal Parlamento, pena il non rispetto dell’articolo 5. Il che non è garantito da un governo come quello che Barnier dovrà cercare di mettere in piedi, strizzando forse l’occhio più a destra che a sinistra. In ballo ci sono decisioni economiche importanti, dopo che Macron ha voluto testardamente la riforma delle pensioni, osteggiata dalla stragrande maggioranza della popolazione, per rimettere in ordine i conti dello Stato.
Ce la farà Barnier? Da quattro mesi il Paese è ormai senza governo, non si prospettano certo scenari “libanesi”, che per anni ha vissuto senza governo, ma il rischio di ingovernabilità del Paese c’è. Se il Belgio, altro esempio a noi più vicino, ha vissuto per più di un anno senza governo, la struttura dell’amministrazione statale belga era sufficientemente forte, anche per via delle autonomie, per tenere la barra dritta. In Francia la centralizzazione del sistema politico fa esprimere qualche dubbio sulla tenuta di uno clima politico di perenne fibrillazione. L’11 aprile 2027, giorno già stabilito delle prossime elezioni presidenziali francesi, è ancora troppo lontano per lasciare un Paese senza guida governativa.
Sicuramente, in tutto ciò gioca la personalità di Macron, considerato lontanissimo dal popolo, e che sembra non tener conto del sentire della gente e dei risultati elettorali, riaffermando la centralità nel sistema francese della presidenza della Repubblica, e sfruttando fino al limite del ragionevole le sue prerogative costituzionali. In qualche modo si comporta in qualche modo da monarca, sperando di intercettare il più profondo sentire politico del Paese. Ma i sondaggi sono a lui sfavorevoli. «La France c’est moi», sembra ripetere l’ex assistente di Paul Ricoeur (dunque formatosi a un’altissima scola umanista) e l’ex responsabile finanziario di Rotschild Francia (dunque uno spregiudicato capitalista), che lo fa definire il Giano bifronte della politica francese.
Il feuilleton continua.
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