Dalla California con “Furore”
Se in uno sgabuzzino non avessi scoperto una vecchia copia di Furore edita da Bompiani, forse mi sarebbe sfuggita quest’opera di John Steinbeck annoverata tra i cento più grandi libri del Novecento. Assorbito dalle vicissitudini della famiglia Joad partita dall’Oklahoma rurale e povera come altri su camion stracolmi di gente e masserizie col miraggio di una vita migliore, ho rivissuto l’epoca della Grande Depressione del 1929, che dagli Usa sconvolse l’economia mondiale con devastanti ripercussioni sociali e politiche: ancora nel 1939, infatti, quasi mezzo milione di contadini lasciarono il Midwest, costretti dalla miseria e dalla fame, per cercare fortuna nelle fertili pianure della California, terra d’origine dell’autore. A ispirargli la potente denuncia di Furore fu lo sfruttamento illegale e a basso costo di manodopera agricola da parte dei proprietari terrieri (quello che da noi si chiama “caporalato”) insieme all’intolleranza di quanti temevano di vedersi togliere lavoro e terre da quei disperati ritenuti portatori di malattie e disordini. Pubblicato in quel medesimo 1939, il romanzo (vincitore poi del Premio Pulitzer) divise l’opinione pubblica americana, entusiasmando i socialisti e viceversa attirandosi l’odio e il disprezzo dei possidenti. A rinfocolare le discussioni s’aggiunse la sua tempestiva versione cinematografica diretta da John Ford, che meritò due Oscar.
Scrittore già popolare caratterizzato da una predilezione per gli “umiliati e offesi” di dostoevskiana memoria, Steinbeck – una infanzia e una giovinezza vissute nelle ristrettezze – non si riteneva persona religiosa malgrado le origini ebraiche. Ciò nonostante la sua epopea contadina evochi palesemente l’esodo del popolo ebreo dall’Egitto verso la Terra promessa. Lo stesso titolo originale The Grapes of Wrath – L’uva (o il grappolo) dell’ira – rinvia al brano dell’Apocalisse 14, 9-11: «Chiunque adora la bestia e la sua statua e ne riceve il marchio sulla fronte o sulla mano, berrà il vino dell’ira di Dio». Non a caso quest’opera, espressamente citata nel Nobel assegnato a Steinbeck nel 1962, nasce all’insegna di una beatitudine, quella dei perseguitati per causa della giustizia, ma allude anche alle opere di misericordia, come vedremo.
Ricerca di una umanità più autentica oltre le apparenze, Furore narra di poveri oppressi e maltrattati, di vagabondi, ubriaconi, lussuriosi, in breve di reietti della società, eppure invincibilmente sospinti da un istinto di bene e di giustizia: gli ultimi che Gesù prediligeva perché privi di maschere e di orgoglio, altrettanti impedimenti ad accogliere l’annuncio del Regno. In questo romanzo corale gli emarginati di tutti i tempi sono rappresentati dalla famiglia Joad, di cui fa parte il giovane Tom, appena uscito dal carcere per omicidio: sarà lui a proporsi al posto del padre come guida nel lunghissimo itinerario attraverso Texas, New Mexico e Arizona su un furgone scassato. Figura di Mosè, lui pure con un delitto sulla coscienza e che in vista della Terra promessa non poté entrarvi, anche Tom, braccato dai poliziotti per essersi schierato con gli scioperanti, deve dire addio ai suoi nell’ultimo tratto: «Sarò dappertutto, in tutti i posti dove ti giri a guardare – dice nell’addio alla madre –. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì». Continuerà lei, vera madre coraggio guidata dall’intuito d’amore, ad essere l’anima della comitiva verso un futuro sempre più incerto. Senza altre donne simili che s’incontrano nel romanzo, capaci di mettere insieme un pasto quotidiano e di escogitare le soluzioni del momento, gli uomini si sentirebbero persi. Altro personaggio chiave associato ai Joad per gran parte del viaggio è Jim Casy, predicatore fallito, peccatore e suo malgrado eletto dai compagni a guida spirituale per il bisogno estremo di una parola dall’alto che li aiuti ad affrontare le prove del loro penoso errare.
Al racconto di questo itinerario della speranza lungo la Route 66 si alternano capitoli nei quali l’autore espone le sue riflessioni sul quadro storico-sociale di riferimento. E proprio in queste pause più descrittive e di commento ricorre più volte il termine “furore” a esprimere il dolore e la frustrazione dei migranti – gli “Okies”, come per spregio venivano chiamati – per l’impatto amaro con la loro Terra promessa dove, causa la scarsità di lavoro, venivano a scoprirsi stranieri in patria.
Tra le drammatiche scene finali, il furgone dei Joad – novella arca di Noè nella tempesta – si trova bloccato dall’esondazione di un fiume causata dalle grandi piogge. Si salveranno, giungendo alla sospirata meta? In questo finale aperto Steinbeck ci sorprende con l’episodio di Rose, la sorella di Tom che, abbandonata dal marito, durante il diluvio partorisce un figlio morto e subito dopo accetta per compassione di allattare uno sconosciuto migrante che muore di fame: allusione alla leggenda di Pero, fanciulla romana che nutrì col latte del suo seno l’anziano padre Cimone, condannato a morire di inedia in carcere. L’ultima parola di Furore è dunque una nota di speranza: l’amore gratuito è la forza che regge il mondo quando tutto sembra perduto e si è circondati da acque di morte.
Quanto allo stile letterario di Steinbeck, se il romanzo negli Usa sconcertò molti per il crudo realismo del linguaggio dei vari personaggi, peraltro perfetto per il loro livello sociale, la narrazione procede sempre elevata, a tratti lirica, come in questo brano del penultimo capitolo:
«La pioggia cessò. Sui campi restò l’acqua, a riflettere il grigio del cielo, e tutta la terra era un murmure d’acqua corrente. E i pezzenti uscivano dai loro covi, dai fienili e dalle stalle e accoccolati contemplavano la terra inondata, silenziosi, o parlando con una tragica calma. Niente lavoro fino a primavera. Niente lavoro. Niente lavoro… niente denaro, niente cibo. […] Le donne osservavano i mariti, per vedere se questa volta era proprio la fine. Le donne stavano zitte e osservavano. E se scoprivano l’ira sostituire la paura nei volti dei mariti, allora sospiravano di sollievo. Non poteva ancora essere la fine. Non sarebbe mai venuta la fine finché la paura si fosse trasformata in furore. L’erba spuntò tenerissima e distese sui colli la delicata coltre verzolina dell’annata nuova».
Quando nel 1940 Furore apparve in Italia, aveva subìto pesanti limitazioni dalla censura fascista. Solo oggi, nella ripubblicazione Bompiani dell’intera opera di Steinbeck, la nuova traduzione integrale di Sergio Claudio Perroni restituisce finalmente a questa pietra miliare della letteratura americana tutta la sua forza e bellezza.