Rappresentanza e libertà al cuore della democrazia, intervista a Flavio Felice

Dialogo con il professore di Storia delle dottrine politiche presso l’Università del Molise e presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton per conoscere una visione del cattolicesimo liberale presente e attivo in Italia
Flavio Felice

Una simpatica coincidenza estiva mi porta a scambiare qualche parola in ambiente rilassato, sotto l’ombrellone di un bar delle bellissime coste abruzzesi, con il professor Flavio Felice, uno dei principali esponenti del pensiero cattolico liberale in Italia, e ne approfitto per una panoramica su alcuni temi di attualità.

Flavio Felice è professore ordinario di Storia delle dottrine politiche al Dipartimento Scienze Umanistiche, Sociali e della Formazione dell’Università del Molise a Campobasso, presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton, da ragazzo ha fatto esperienza nel movimento gen ed è tuttora in contatto col movimento diocesano dei Focolari.

Come si è visto a Trieste, il cosiddetto “mondo cattolico” racchiude molte istanze e pratiche ed è in costante dialogo con il pensiero politico e con tutto l’arco costituzionale italiano. Mondo cattolico e politica sono entrambi in cammino e né l’uno né l’altra possono dire di avere le ricette per tutto, ma la passione e l’impegno delle persone danno speranza, e in molti luoghi si fanno passi concreti verso un mondo migliore, pur nel travaglio di guerra e distruzione oggi vicino come non si vedeva da molti anni.

Uno dei compiti di Città Nuova, come è noto, è raccontare questi variegati mondi, dar conto delle differenze ma anche aiutare ad un approccio propositivo sui temi dove questo è possibile.

Professor Felice una riflessione sulla attuale fase di conflitto internazionale: a suo parere l’attuale sostegno europeo all’Ucraina rafforza il diritto di difesa della nazione aggredita oppure è una ingerenza in una disputa tra paesi terzi e si dovrebbe evitare di “circondare” la Russia per non provocarne la reazione?
Partiamo dal presupposto che, in epoca di globalizzazione avanzata, non è più possibile distinguere tra Paesi interessati e “Paesi terzi”, a meno che non si sostenga l’ipotesi della “deglobalizzazione”, come soluzione alle conseguenze dell’interdipendenza globale, e non si perori il ritorno alle famigerate “sfere d’influenza”. Chi ha la mia età (55 anni) e ha conosciuto, facendone esperienza, un certo orizzonte valoriale, ha vissuto l’ideale del “mondo unito” come una reale possibilità e non può che guardare con forte preoccupazione la tendenza a considerare la “deglobalizzazione” come una necessità storica. Ciò che accade in Ucraina mi interessa e mi impegna come ciò che accade nella mia città, anche se l’impatto immediato sulla mia vita è evidentemente differente. Ritengo che ciò che sta accadendo dal febbraio del 2022 in Ucraina: la spietata aggressione russa in territorio ucraino, sia una delle più intollerabili violazioni del diritto internazionale dalla caduta dei sistemi di socialismo reale e che sia dovere, in primis dei paesi europei, difendere il popolo ucraino. Il rispetto del diritto è la stella polare dell’homo democraticus, il quale coltiva la consapevolezza che, solo in forza del diritto, il debole può essere difeso dalla forza della violenza bruta e arbitraria. Non operare per il rispetto e per il ripristino del diritto internazionale significherebbe abbandonare il debole e l’indifeso nelle mani dei tiranni, esattamente quello che non fecero i partigiani, gli internati e le forze alleate durante la seconda Guerra Mondiale, resistendo alla furia totalitaria e liberandoci dal regime nazifascista. E vengo alla NATO; l’organizzazione di difesa atlantica che ha svolto un ruolo fondamentale a difesa della nostra libertà e per il raggiungimento di un relativo benessere. Ebbene, questa libertà e questo relativo benessere, sempre precari per definizione, non possono essere un’esclusiva dei pochi partecipanti ad un club, rappresentano una legittima aspirazione di tutti i cittadini del mondo. Per questa ragione eviterei di dar credito ai cantori dello slogan “Né con Putin, né con la NATO”, che poi, in gran parte (ma non tutti), sono gli stessi che negli anni Settanta scrivevano la crudele “Né con le BR, né con lo Stato” e solidarizzavano con il criminale sistema sovietico.

L’ultima Settimana sociale dei cattolici a Trieste ha riproposto il tema della democrazia e della sua attuale crisi, con qualche spunto di dialogo anche tra posizioni differenti. Qual è secondo lei la direzione da percorrere?
Tante questioni in una sola domanda, ma provo a risponderle, concentrandomi sul tema scelto dalla Conferenza Episcopale Italiana per l’ultima settimana sociale, che si è da poco conclusa a Trieste. Nell’ottica della concretezza, intesa come “ragione pratica”, credo che sia utile ragionare sul titolo della settimana sociale di Trieste: “al cuore della democrazia”, argomentando come il cuore della democrazia (in quanto regimento politico) non possa essere la “partecipazione” in quanto tale, bensì sia la “rappresentanza”. Le politiche populistiche non si combattono invitando alla partecipazione, quale populista o dittatore non chiede al popolo di partecipare? Anzi, il populista e il tiranno abbattono i corpi intermedi nel nome della partecipazione diretta del popolo. Il cuore della democrazia, invece, a mio modestissimo parere, ma sulla scorta di non pochi maestri, risiede nella percezione che hanno i cittadini di essere “rappresentati” e nella concreta possibilità che essi hanno di vedere le proprie istanze politiche, economiche e culturali ben rappresentate. Si partecipa alla democrazia se si è rappresentati: “no taxation without representation”. Era questo il motto dei rivoluzionari americani che hanno abbattuto l’Antico Regime e posto così le basi della democrazia contemporanea. È vero che la crisi delle democrazie contemporanee è sempre più una crisi segnata dalla fuga dalla partecipazione, ma chi è interessato a giocare una partita nella quale gli è impedito di toccare palla? Se la democrazia diventa una partita che interessa gli altri, la giochino pure gli altri, la difendano gli altri, perché è percepita come la “democrazia degli altri”. Il populismo e le democrature (le democrazie illiberali) si combattano riportando al centro la questione della rappresentanza, dalla quale dipende la disponibilità a partecipare ai processi democratici. In tal senso, la partecipazione è una derivata della rappresentanza, e la rappresentanza necessita di un ripensamento continuo dei suoi istituti, a cominciare dalla legge elettorale. Credo che la concretezza democratica passi anche per la chiarezza teorica.

La elezione di Ilaria Salis al Parlamento europeo ha riportato in discussione il tema della carenza di alloggi in diverse città, pur in presenza di molti alloggi sfitti, e delle occupazioni abusive. Ne prendo spunto per affrontare il tema del bisogno contrapposto alla proprietà privata e allo stato di diritto: se uno è in necessità allora saltano le regole? Ci si può allacciare alla corrente altrui, occupare case, valicare confini illegalmente ….che ne pensa ?
In questi casi bisogna fare molta attenzione e distinguere il giudizio morale dall’azione politica. Sotto il profilo morale, personalmente, non me la sento di giudicare, in termini di condanna, coloro che, mossi dalla necessità, giungono a trasgredire le regole, nella misura in cui il danno prodotto sia limitato e la condizione di necessità sia tale da impedire una vita decente. Non condannare, tuttavia, non significa non giudicare, perché il giudizio è parte integrante del pensero che è la cifra dell’azione umana. Ne consegue che, accanto all’astensione dalla condanna morale, mi interessa capire cosa fare per evitare che il diritto sia violato; dal momento che, quanto detto in ordine al diritto internazionale vale anche per il codice di diritto civile: il rispetto del diritto è la stella polare dell’homo democraticus. Qui entra in gioco l’azione politica, quella che Benedetto XVI, in Caritas in veritate n. 7, definisce in maniera magistrale “la via istituzionale della carità”. L’azione politica, che è esercizio del potere, in termini cristiani, ha senso e merita la nostra ammirazione nella misura in cui serve a questo fine, ossia dar vita a istituzioni che rendano concreta la carità e giungere così a risolvere i problemi dell’umana convivenza, lì dove le persone singole non sarebbero mai potute arrivare. Chi si trova in situazioni di forte disagio economico e non vive una vita decente, guarda alla “democrazia degli altri” con occhi schifati e si ribella, considerando quell’assetto istituzionale e il diritto che lo disciplina, le prime cause del proprio disagio. Non stupisce dunque che si ribelli e operi per abbatterli. I sostenitori delle democrazie liberali hanno il dovere morale e politico (in senso istituzionale) di operare per far emergere le istituzioni più adatte a includere il maggior numero di persone possibili, perché solo istituzioni politiche inclusive (contendibili) possono garantire istituzioni economiche altrettanto inclusive e favorire un processo di continuo ricambio delle élite e scongiurare la cristallizzazione delle oligarchie, il veleno che sta uccidendo le nostre democrazie.

Il pensiero liberale teorizza un limite alla presenza dello Stato, cristianamente declinato col principio di sussidiarietà, ma in Italia non pochi propongono come soluzione ad ogni problema più regole, più tasse e più spesa pubblica; quali sono le parole d’ordine di un pensiero liberale arricchito da una spiritualità cristiana?
Dal momento che la sua domanda è interessata a cogliere le parole d’ordine del pensiero liberale e cristiano, mi consenta di tentare di rispondere, ricorrendo al pensiero di colui che ritengo sia stato, forse, il più lucido intellettuale, economista e politico liberale italiano: Luigi Einaudi. Nelle Lezioni di politica sociale (1943-44), il futuro presidente della Repubblica, dal suo esilio svizzero, introduce la cosiddetta “teoria del punto critico”. È lo stesso Einaudi a scrivere che non esiste una “regola teorica” del punto critico, allorché afferma: “ad un certo punto, mutevole a seconda delle circostanze”; in pratica, si tratta di un equilibrio dinamico in forza del quale un qualsiasi fenomeno o provvedimento, politico o economico, da positivo si converte in negativo. A tal proposito, Einaudi riporta gli esempi del pluralismo e dell’uniformità, oltre quello della fiscalità: una società plurale è l’antidoto contro la tirannia, eppure, oltre un determinato punto critico, il pluralismo potrebbe convertirsi in anarchia. Non sappiamo a priori quando ciò potrebbe accadere, ma sappiamo che accade. La teoria del punto critico del liberale e cattolico Einaudi esprime il livello più profondo e proprio dello scienziato sociale, un carattere che distingue lo scienziato dall’ideologo o dal propagandista. Mentre il primo è mosso da una profonda umiltà epistemologica che lo fa dubitare sistematicamente, il secondo e il terzo sono animati unicamente dal proprio piano, in virtù del quale, non solo pretendono di conoscere come vada il mondo (e con esso la storia), ma anche di sapere come dovrebbe andare e così sono bruciati dallo zelo di imporlo anche con lacrime e sangue. Ebbene, la prospettiva epistemologica e antropologica einaudina ci rende consapevoli che i nemici della libertà possono nascondersi in qualsiasi tipo di organizzazione politica ed economica. Il punto critico è lì a indicare il discrimine teorico che segna il confine tra la società aperta e la società chiusa, al punto che la cifra della libertà non consiste nella professione di una determinata ed astratta idea di libertà, ma nel fatto che ortodossi e eterodossi possano convivere nello stesso spazio.

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