Fedra e Ippolito, amore e vendetta al Teatro Greco di Siracusa
Insieme ad Aiace, con la regia di Luca Micheletti, Fedra, Ippolito portatore di Corona, di Euripide, con la regia dello scozzese Paul Curran, è stato l’altro spettacolo di successo della Stagione dell’Inda al Teatro Greco di Siracusa. Fedra è personaggio tra i più chiacchierati e controversi della Mitologia greca e delle tante opere che ne hanno ricavato materia muovendo l’ispirazione di autori illustri nel corso dei secoli.
Il mito dice che Fedra, sposa di Teseo e regina, è presa da un continuo languore e una continua angoscia perché invaghitasi perdutamente del figliastro Ippolito, il quale, devoto di Artemide e spregiatore di Afrodite, trascorre la vita tra virili cacce. Fedra conscia dell’amore proibito, non osa confidarlo a nessuno, e ciò acuisce il suo tormento.
Quando infine Ippolito ne viene a conoscenza per l’importuna mediazione della nutrice della regina svelandone il segreto, prorompe in un’ampia invettiva contro il sacrilegio e il sesso femminile tutto. Fedra, per la vergogna, comprende restarle una sola via d’uscita, la morte: s’impicca subito, non senza aver lasciato un’infame lettera per Teseo, nella quale scrive di dover morire per l’onta di essere stata da Ippolito posseduta con la violenza. La reazione di Teseo, marito e padre, nei confronti di Ippolito è brutale e ingiusta.
A emergere è la tirannia dei padri verso i figli maschi. Creditore verso Poseidone di tre desideri esauditi, Teseo gli chiede la morte di Ippolito. Un mostro marino sorge dall’acqua sul tratto di spiaggia percorso dal carro di Ippolito. Il carro si rovescia, il Principe resta intricato nei legamenti ed è straziato dalle rocce sulle quali viene trascinato. Nell’Esodo di Euripide appare Artemide per svelare la verità a Teseo e dare il suo conforto al morente Ippolito. Nessun mortale per pio che sia, può sfuggire alla volontà o al capriccio degli dei.
“Questa narrazione spinge all’introspezione – spiega il regista – sfidandoci a decifrare la natura divina o distruttiva dei nostri pensieri e delle nostre emozioni nel complesso arazzo dell’esperienza umana”. La lotta tra amore e vendetta, tra eros e morte, si svolge sulla vasta scena bianca chiusa, sul fondo, da impalcature metalliche e di legno dove campeggia al centro una grande testa di divinità femminile rigata da fenditure, che si accenderà poi di porpora e di proiezioni video con Fedra e Afrodite, per spaccarsi e tramutarsi infine in teschio.
A non convincere del tutto nell’economia dello spettacolo, è la mescolanza di stili e di epoche dettate, visivamente, dai costumi del Coro simil “figli dei fiori” con danze da musical (che ricordano Hair), e mix di sonorità dissonanti e melodiche (costumi e scene di Gary McCann, musiche di Mattew Barnes ed Emani Maletta); dalla comparsa di altri coreuti e servi in tuta da operaio con tanto di casco giallo in testa; da interventi con lettini ospedalieri, smartphone e pistola; e dai personaggi principali con abiti eleganti o pepli dalle fogge classiche.
Insomma un po’ dramma borghese, un po’ rimandi greci, un po’ modernizzazioni e citazioni anni Settanta. Eppure la storia scorre limpida – nella traduzione di Nicola Crocetti – grazie alla compagine attorale tutta alla quale si perdonano certi eccessi di enfasi di alcuni/e. L’elogio pieno va alla coppia protagonista, entrambi alla loro prima prova importante. Alessandra Salamida, una Fedra travagliata, vulnerabile, donna ferita di misurato ardore di sensi e di cuore; e Riccardo Livermore, nell’arduo ruolo di Ippolito.
Il giovane attore convince appieno per presenza, eloquio, sfumature di toni nell’invettiva misogina come nella sofferenza interiore, nell’irruenza giovanile come nella pietà michelangiolesca adagiato tra le braccia del padre pentito. Una misurata direzione della parola, la sua, e un’onestà fino alle viscere. Teseo è Alessandro Albertin, Marcello Gravina il messaggero narratore, Gaia Aprea la nutrice, Giovanna Di Rauso Artemide, Ilaria Genatiempo Afrodite, Sergio Mancinelli il servo.
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