La ferita e la luce
Cominciamo con un po’ di fisica. In un articolo apparso nel 1934 su Physical Review, i fisici Gregory Breit e John A. Wheeler descrissero teoricamente un processo per il quale due fotoni (cioè due particelle di luce, per dirla in soldoni) che collidono ad alta velocità, generano una coppia elettrone-positrone. E questo che cosa significa? Qualcosa di straordinario. I fotoni, in quanto luce, non hanno massa, sono immateriali, si potrebbe dire. Gli elettroni e i positroni, invece, sono particelle che hanno una massa, sono materia. Dalla luce, la materia.
Portando il discorso alle estreme conseguenze, si potrebbe pensare che dalla luce si possa produrre la materia prima con la quale sono stati creati tutti gli altri enti. Siamo dunque… fatti di luce? Per completezza dobbiamo aggiungere che il processo Breit-Wheeler non è mai stato osservato in laboratorio, forse ci è riuscito qualcuno nel 2021.
Ma ora abbandoniamo la fisica, e portiamo la suggestione che ci ha dato nel mondo della poesia, che può coincidere – perché no? – con quello più prosaico della vita di tutti i giorni. Fatti di luce… È bello avere questa consapevolezza quando ci si alza al mattino, si prende al volo un caffè e ci si fionda nella quotidianità del lavoro o dei vari impegni che si hanno. É bello pensare che si può portare qualche fascio di luce nelle tenebre del piccolo mondo con cui abbiamo a che fare. Fatti di luce…
Le religioni pensano che questo riguardi pure la divinità. Nel Nuovo Testamento, Giovanni, nella sua prima lettera, dichiara: «Dio è luce». La tradizione islamica, che attribuisce ad Allah 99 nomi, lo chiama con uno di essi – il novantatreesimo – An-Nur, la luce.
Spesso però non ci sentiamo luce. I guai della vita, gli acciacchi, le situazioni insolvibili in cui finiamo, le vicende dolorose del grande mondo, ci avvolgono nel buio. A questo proposito è bene ricordare un testo del mistico musulmano Gialal al-Din Rumi, nato attorno al 1200 nell’odierno Afghanistan. Lui è quello che ha ispirato i dervisci rotanti, se qualcuno li conoscesse. Scriveva: «Quello che fa male, ti benedice. L’oscurità è la tua candela. Dove c’è la rovina, c’è speranza per un tesoro. Non allontanarti. Mantieni lo sguardo sulla tua ferita. È da lì che entra la luce dentro di te».
Secoli dopo, il cantautore canadese Leonard Cohen, nella sua bellissima canzone Anthem, riprendeva lo stesso concetto: «There is a crack, a crack in everything / That’s how the light gets», in ogni cosa c’è una ferita, è da lì che entra la luce. Per diventare ciò per cui siamo fatti, per essere luce, dobbiamo dunque tenere lo sguardo sulle nostre ferite, senza commentarle, senza ragionarci su, e accettarle con amore? Sembra assurdo, ma l’unica strada pare proprio essere questa.
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