Turandot, bellezza incompiuta

A Roma, al Festival Caracalla, una innovativa rappresentazione dell’ultimo lavoro di Puccini. Fedeltà all’originale e innovazione. Fino al 4 agosto.
Foto Teatro Opera Roma

Niente finale grandioso di Franco Alfano o “moderno” di Luciano Berio. Donato Renzetti, direttore grande e intelligente, evita gli spettacolarismi– anche l’aria “Nessun dorma” è rapida senza attendere appalusi -, colora l’orchestra con le sonorità ”cinesi” inventate da Puccini- sulle orme di Stravinski, Debussy, Ravel – e chiude con la morte di Liù: “poesia”.

Densa, lenta, commossa. Così Puccini conclude nel 1924 la sua ultima opera, lasciandola incompiuta. Non l’ha finita perché il tumore alla gola se l’è preso. Ma non poteva finirla. Si era spinto sul crinale del Novecento ma lui era il cantore dell’amore fragile, eroico anche, piccolo e fedele. Mentre Turandot, la femme fatale arcaica e crudele – erede di Dalida e di Salomè – si slancia in un canto frastagliato e laminato terribile, lei, la piccola Liù si sacrifica per il suo principe con triste dolcezza. Muore Liù, muore un certo tipo di opera lirica e mure Puccini e il suo mondo.

Belle le voci, a iniziare da Angela Meade, sigillata in una sorta di macchina trionfale, capace di rifulgere nel canto spezzato, lancinante della principessa che ha paura di amare. Finissima la Liù di Maria Grazia Schiavo, di un lirismo commovente. Calaf, l’ultimo tenore pucciniano, che sembra forte ma è soggiogato dalla donna-strega, è Luciano Ganci dagli acuti metallici  ampi, voluminosi e da una recitazione convincente.

L’orchestra docile segue il direttore che non punta troppo al fragore maestoso e sottolinea i passaggi o lirici o briosi pur nelle asprezze sonore di una partitura che racconta la Cina della favola arcaica e misteriosa con il coro ben preparato che invoca la luna e Turandot, donna o fantasma che sia.

Veniamo alla regia misurata di Francesco Micheli, virata sull’essenziale, e poi al progetto scenografico  di Massimiliano e Doriana Fuksas, che è stato convincente nel costruire un palco “metafisico” -costumi sagomati compresi – tra videoproiezioni indovinate sulle rovine. Gran spettacolo visivo ma “corretto” dalla direzione musicale che esalta la partitura, così che la scenografia geometrica evoca davvero il mondo lontanissimo e attuale dell’opera.
Un lavoro, questo di Puccini, che trova la sua ragione poetica non nello stentoreo”vincerò”, ma nell’indagare ancora una storia d’amore possibile-impossibile, tenera e difficile, con un piccolo briciolo di speranza e un dolore sotteso in cui si avverte la mano stanca dell’autore.

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