Con il ’68 nulla rimase come prima

Una vera rivoluzione che ci aprì al mondo e si è rivelata feconda per coloro che cominciarano a cambiare le cose partendo dalla propria vita, dalle scelte radicali. Come ha detto Daniel Cohn Bendit, "Il sessantotto non è un anno ma uno stato d’animo”
May 1968 in France. ANSA / PAL

Il “sessantotto” non è un fallito e defunto tentativo di cambiare il mondo. Esso fu ben altro che un conato di rivoluzione miseramente fallito ed è sbagliato, quando si dice“sessantotto”, pensare agli eskimo verdi ai cortei, alle molotow, ai sassi lanciati per strada. Quello fu solo l’aspetto più rumoroso, pittoresco e fallimentare del ’68.

Nel Maggio 1968 una rivolta studentesca, passata alla storia come “Maggio francese”, scoppiò alla Sorbona ed in altre università parigine facendo da innesco alla rivolta diffusa velocemente a tutti gli ambienti operai e studenteschi d’Europa e nord America.

Ma il movimento di pensiero e di vita che prende il nome da quell’anno fu una ventata di idee nuove, di rinnovamento che nell’ambito del secolo ebbe, all’avviso di chi scrive, una portata analoga a quella che la rivoluzione francese ebbe nell’ambito della storia moderna. Perché, anche qui, niente rimase uguale a prima. Nacque un’idea nuova e concreta di libertà; furono messi al bando l’ipocrisia ed il conformismo, l’ingiustizia e l’isolamento tra le culture.

Nella “contestazione globale”, sotto l’apparente follia del rifiuto di tutto, era nata una nuova, inedita, grande  consapevolezza civile; si scoprivano i problemi del mondo come propri e si capiva quanto ogni scelta personale potesse e dovesse condizionare le sorti del mondo.

Scoprimmo il significato di quell’ “I care” scritto da don Milani nell’aula della sua scuola. I mali del mondo appartenevano anche a noi, pesavano ora anche sulle coscienze dei singoli, proprio nella forma in cui Bob Dylan, Joan Baez li denunciavano nelle loro schiette ed appassionate canzoni. Da allora si chiamò “impegno” quel che nasceva da questo nuovo generoso sentire.

Nacquero come nuovi i valori della pace, del disarmo, della denuncia della guerra. Negli ambienti del lavoro, soprattutto industriale, si scopriva l’ingiustizia umana nello sfruttamento dei lavoratori. Era il bando dell’ipocrisia e di ogni ingiustizia. Se ne cercava il sostegno dovunque: nelle briciole di saggezza tratte dal “libretto rosso” dei Pensieri di Mao Tse Tung, negli slogan del Maggio francese, nel pensiero dei filosofi di Francoforte, nel Vangelo, nelle canzoni “di protesta” dei cantautori, figure nuove nate proprio allora.

Che libertà, dopo mezzo secolo, riconoscere d’esser riusciti a mantener fede agli ideali e non averli mai rinnegati; che libertà aver creduto a quegli ideali con sincerità ed averli vissuti; esser stati coerenti andando, decisi, controcorrente tutte le volte che fu necessario. Che libertà esser stati fedeli agli ideali di un mondo migliore e poter esserlo ancora.

Si parlava di rivoluzione in quegli anni. Noi abbiamo fatto la nostra rivoluzione ed è così che l’abbiamo vinta. Non per virtù nostra ma perché qualcuno ci insegnò a cambiare le cose dentro di noi, non a pretendere di cambiare gli altri ma cambiare noi stessi. Che equivoco banale e diffusissimo fu la pretesa di cambiare il mondo cambiando gli altri con un colpo di bacchetta magica, quando non di mitra… Non funziona, non ha mai funzionato e non può funzionare! È questo, solo questo che, a mezzo secolo da quando eravamo liceali, possiamo dare al mondo di adesso. Possiamo dar conto solo della nostra vita vissuta con rettitudine secondo quei valori. Il resto non arriva, è inefficace quando addirittura non crea danno.

Vale una profezia di don Tonino Bello: “I sogni diurni sono quelli che si avverano”.

Nella chiesa, ad esempio, soffiando su ideali più profondi, che avevano al centro l’uomo e la persona umana, il “vento” del ’68 fu fecondo, portò idee che non caddero, fece nascere realtà importanti e nuove come la comunità di Sant’Egidio, la comunità di Bose, il movimento Gen, Pax Christi, la GS di Giussani (poi CL), tanti altri movimenti comunità e perfino qualche ordine religioso. E quello spirito contribuì forse anche, quantomeno in Europa, a creare il terreno per uno sviluppo postconciliare di tutta la Chiesa.

Fu questa, descritta in modo assai sommario, la rivoluzione del sessantotto. Dopo cinquant’anni, ora è il caso di considerarne i frutti, guardare quello che grazie a quello spirito si è costruito, non alla retorica superficiale, malinconica e triste degli eskimo, delle molotow e di un fallimentare sogno di rivoluzione marxista.

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