Tutto il 68 minuto per minuto
Il 5 febbraio di 50 anni fa esplodeva il ’68. Con l’occupazione di Lettere e Filosofia all’Università di Roma. A parte Berkeley, dove gli studenti avevano acceso la miccia dal ’65-’66, da noi i primi segni della rivolta “goliardica” si erano avuti a Torino già alla fine del ’67. Però fu appunto a Roma all’inizio di febbraio del ’68 che, con il coinvolgimento prima di una poi di tutte le altre facoltà della città universitaria, l’incendio di quella che sarebbe passata alla storia come la contestazione studentesca e giovanile degli ultimi anni ’60 si propagò velocemente a tutti gli atenei d’Italia, e in parte pure ai licei e agli istituti superiori. E tutto questo, perciò, ben 3 mesi prima del tanto mitizzato “maggio francese”.
Quando a Lettere, la mia facoltà, scoppiò la bomba, ricordo che mi arrabbiai molto perché non mi potevo più levare di torno l’esame di geografia, che odiavo e che mi avevano fissato proprio per quel fatidico 5 febbraio. L’avrei sostenuto mesi dopo, e con un docente molto più severo del mio professore, il quale nel frattempo, scioccato e disgustato dagli eventi, aveva pensato bene di andarsene in pensione. Ma i miei problemucci e quelli del vecchio prof non erano che misere espressioni di un marcio individualismo piccolo-borghese, destinato a essere travolto dalle “magnifiche sorti e progressive” delle settimane e dei mesi seguenti.
Che infatti riservarono di tutto e di più a una popolazione studentesca ogni giorno più disorientata. Blocco di lezioni, seminari, esami ecc.; assemblee a getto continuo, “plenarie” (si fa per dire) in aula magna e “di corrente” nelle altre aule; cortei in giro per i vialetti della Città degli studi, almeno a Roma, con corredo di comizi improvvisati e scontri fra opposti gruppi di studenti, che, strano a dirsi, vedevano tramontare proprio in quei giorni i loro “partitini”, come l’Intesa universitaria (cattolica) e i Goliardi autonomi (marxisti). Con tutti i loro limiti queste forze però rappresentavano gli studenti al “parlamentino” universitario, democraticamente eletto. Da allora non ci sarebbe stato più niente di tutto questo: l’«immaginazione al potere» cancellò quel poco che se ne aveva.
Rivivendo il ’68 minuto per minuto, tornano a galla tante bizzarrie, che ora inteneriscono e allora lasciavano basiti. Estranei con facce “da fuori corso” che giravano per le facoltà col megafono in pugno – un simbolo del ’68, i primi a batteria – a indire riunioni, scandire slogan e arringare gli studenti. Manifesti e tazebao dovunque; nei casi peggiori, come a Lettere a Roma, dall’oggi al domani tutti i muri impietosamente graffitati con slogan tipo: «Sacro cuore di Lenin / fa’ che vinca Ho Chi Min». Una barbarie, i muri imbrattati, che almeno in Italia non è più finita. E a proposito di Oriente, ricordo quando un sacco di studenti filocinesi entrarono di corsa alla Sapienza reggendo a braccia alzate un serpentone rosso lungo Dio sa quanto, simbolo della Cina popolare e dell’amato presidente Mao.
Il ’68 fu anche questo, di carne al fuoco se ne metteva di ogni tipo: dalla politica, interna ed estera, alla critica dell’università e al 18 politico (poi sarebbe venuto il 6, alle medie); dalla rivoluzione sessuale e del costume al post-concilio spinto: ci fu un ’68 ecclesiale, e la Lettera a una professoressa dei ragazzi di don Milani ne fu il “libretto rosso”; dal conflitto genitori-figli, oramai guerra atomica (!), a cose più spicce come la moda, i capelli, lo sdoganamento delle parolacce, l’abolizione del “lei” e via rivoluzionando.
Come tutte le cose umane, il ’68 è stato ambiguo. Fu un male per certi effetti negativi: lo spuntare dei capetti semicolti, presuntuosi e arrivisti, che negli ’80 avrebbero svettato per rampantismo; la degenerazione del dissenso studentesco nell’estremismo extraparlamentare, poi la formazione dell’area definita di “autonomia” (violenta e antisistema) e infine la clandestinità e lotta armata, cioè il terrorismo brigatista o nero. È stato bello fare il ’68; c’era in tutti i Paesi occidentali, perché da noi non si sarebbe dovuto fare? Ma ecco la controindicazione: Usa, Inghilterra, Francia sono Paesi più forti di noi, più solidi, e dalla contestazione hanno tratto il succo e hanno ripreso il cammino.
L’Italia è più fragile culturalmente, a livello identitario, e le macerie provocate dal ’68 sono ancora lì: insicurezza, precarietà, sfiducia nel potere e nel domani, arroganza e mancanza di stile che dilaga e nel ’68 si faceva le ossa. La contestazione non aiutò a curare i nostri mali – mafia, “civiltà limitata” (diceva Sylos Labini), evasione fiscale, individualismo, furbizia, cultura dell’illegalità –, e non fruttò neanche nel campo più suo, cioè la riforma della scuola e dell’università.
I lati positivi? Il ’68 ha mosso la società, nonostante tutto l’ha fatta crescere, ha rimosso complessi e inibizioni, ha favorito rapporti e comportamenti più sciolti e disinvolti, più sinceri, abbattendo stereotipi e pregiudizi “borghesi” e clericali. Forse a certi approdi si sarebbe arrivati pure senza quei danni ed eccessi. Ma la storia non si fa con i se, e l’epopea sessantottina a quelle conquiste ha senz’altro decisamente contribuito.