Pizzaballa: per la pace in Terra Santa va subito fermata la guerra
A Gaza si è perso ogni residuo senso di umanità. Che sia dovuto agli attacchi delle forze armate israeliane o alle ritorsioni di Hamas fa poca differenza per le migliaia di vittime civili, donne, vecchi e bambini. «Dal 7 ottobre 2023 siamo stati invasi da un’esplosione di odio profondo e molto lacerante tra israeliani e palestinesi», osserva il card. Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei latini in un incontro pubblico, a Castellana Grotte, in provincia di Bari, a margine del settantesimo anniversario di sacerdozio di fra Pio d’Andola, Commissario di Terra Santa della Provincia pugliese S. Michele Arcangelo.
«È iniziata una nuova fase del conflitto – aggiunge Pizzaballa –. Per i palestinesi è la continuazione di una guerra cominciata 75 anni fa; per gli israeliani un nuovo inizio. Sta di fatto che le persone sono invase da tanto odio che non c’è posto nel loro cuore per il dolore dell’altro».
Le società sono distrutte, frammentate, confuse. «Israele ha richiamato alle armi circa 500 mila cittadini, ha cancellato quasi 200 mila permessi che consentivano a pendolari palestinesi di lavorare in edilizia, agricoltura e ristorazione. Lungo la Striscia di Gaza e a nord del Paese la popolazione israeliana è stata evacuata, nei territori occupati frequenti sono gli scontri tra ebrei e villaggi palestinesi».
Quello che sta accadendo a Gaza è qualcosa di unico. L’87% delle abitazioni è stato distrutto dai bombardamenti israeliani, i confini sono chiusi, niente acqua, energia elettrica e fognature. Non c’è sicurezza in nessuna zona. «Le famiglie – informa il Patriarca – sono state costrette più volte a spostarsi, molte si sono disperse, numerosi bambini sono rimasti senza genitori. I cristiani a Gaza erano 1.017 ora sono appena 621, molti uccisi dagli attacchi israeliani, altri morti per cause naturali e alcuni fuggiti».
La guerra è mille cose che si vedono e le cronache ne danno conto, e altrettante che non si vedono, ma che incidono duramente sulla vita delle persone. Difficoltà di approvvigionamento di cibo, mercato nero dei generi alimentari, sistemazioni assai precarie delle famiglie, spesso separate le une dalle altre da un lenzuolo, difficoltà di cucinare. «La guerra non è solo bombe – continua il cardinale – ma situazioni complesse che ciascuna parte percepisce in modo diverso. I palestinesi hanno negli occhi quello che accade a Gaza; gli israeliani, pensano, invece, ai loro ostaggi».
Tra le due parti si consuma un linguaggio d’odio. «Quando l’altro lo uccidi con le parole – osserva il cardinale Pizzaballa – la violenza diventa anche altro. Tutte le guerre si trascinano dietro un bagaglio di disumanità, ma qui le parole sono diventate disumane: negano l’uno l’umanità dell’altro».
In queste condizioni il dialogo è difficile, se non impossibile. «Noi come Chiesa – dice ancora – ci siamo subito dati da fare per sostenere concretamente la gente che era senza lavoro, ma non basta. La guerra ha prodotto un senso di solitudine, di abbandono e di perdita e la gente ha bisogno di percepire la vicinanza e di sentirsi amata».
Il 7 ottobre ha interrotto ogni relazione, ha scardinato sicurezze che permettevano una precaria normalità. «Il dialogo interreligioso tra ebrei, cristiani e musulmani è saltato – informa il Patriarca, – non si riesce più a fare un incontro. Gli ebrei si sentono traditi, i musulmani sono accusati di essere conniventi con le stragi, i cristiani sono divisi. La conseguenza è che in questo momento molto duro tra comunità non riusciamo a parlarci». E il sogno della pace da molti auspicato e inseguito sembra lentamente allontanarsi se non addirittura naufragare.
«Non ha senso parlare di pace ora – chiarisce il patriarca –, prima bisogna fermare la guerra. La pace ha bisogno di un contesto di ascolto e di desiderio che ora non c’è». Mancano le condizioni e soprattutto una profonda riflessione sul futuro. «La pace – aggiunge il cardinale – ha bisogno della purificazione della propria narrativa, occorre una guarigione del vissuto, le ferite sono profonde».
Come faranno a guarire i bambini di Gaza e quelli dei kibbutz che hanno visto cose terribili? si chiede. Ci vorrà molto tempo e persone che aiutino a promuovere percorsi di guarigione. Quel che certo è che la situazione è incancrenita: israeliani e palestinesi non possono stare insieme. La soluzione ovvia è due popoli e due Stati. «Lo dicono tutti, ma in questo momento è tecnicamente molto difficile – spiega Pizzaballa –. Questo governo israeliano pare non abbia intenzione di lavorare a questa soluzione».
Per i cristiani, piccola comunità in Terra Santa, la situazione è indubbiamente assai difficile. La comunità vive le stesse tragiche dinamiche degli altri e, per il patriarca, «non si vedono prospettive. Si corre il rischio che l’emigrazione riduca in maniera consistente la comunità cristiana». L’unica strada che può assicurare la prosperità è la pace. Per questo il mondo ha gli occhi puntati ai negoziati tra Israele e Hamas. La speranza è che portino qualche risultato concreto, ma la cronaca ci parla sempre di ostacoli. C’è sempre qualcosa che li blocca. Un caso o una volontà? Difficile dirlo. Intanto il sangue civile continua a scorrere tra le macerie di Gaza e nell’impotenza degli organismi internazionali.
_
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it
_