L’aiuto al suicidio non è un diritto
Potrebbe sembrare un tema per “addetti ai lavori”, ma in realtà è una notizia che riguarda tutti. Lunedì 1° luglio è stata pubblicata la risposta del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) al quesito posto dal Comitato Etico Territoriale della Regione Umbria in merito ai Trattamenti di Sostegno Vitale (TSV).
La questione è di grande importanza; è proprio la definizione di Trattamento di Sostegno Vitale, infatti, uno dei punti di maggior confronto nel dibattito che riguarda le future sentenze della Corte Costituzionale e la legge (perennemente) in discussione in Parlamento sul Suicidio Medicalmente Assistito. Perché è così importante la risposta del CNB?
Tutto parte dalla Sentenza del novembre 2019 sul cosiddetto caso Cappato – Antoniani, in cui la Corte Costituzionale, pur ribadendo il divieto di aiuto al suicidio nella nostra legislazione, aveva identificato alcuni requisiti (pochi e restrittivi) in presenza dei quali poteva essere depenalizzato (ripetiamo: non “legalizzato”) l’aiuto al suicidio (su Città Nuova ne abbiamo parlato già più volte, per esempio qui). Tra questi requisiti, la dipendenza da Trattamenti di Sostegno Vitale.
Negli anni successivi è stato proprio su questo campo che si è aperta una accesa discussione su quale fosse il limite per considerate una terapia o una procedura assistenziale come TSV. Evidentemente, quanto più si “allarga” il campo della definizione, tanto più diventa consentito il Suicidio Medicalmente Assistito, in caso di una legislazione che non solo lo “depenalizzi” ma che lo definisca come “diritto”. A titolo esemplificativo, per alcuni sostenitori “estremi” di queste posizioni, TSV sarebbero anche solo un catetere vescicale o imboccare un paziente non in grado di nutrirsi da solo.
La risposta del CNB è stata articolata e frutto di un dibattitto approfondito fra le diverse “anime” del Comitato (19 favorevoli, su 28 componenti): in sintesi, TSV sono quelli che comportano una vera e propria sostituzione delle funzioni vitali e la cui sospensione comporti la morte in tempi molto brevi. In questa definizione, quindi, il campo si restringe sostanzialmente ai trattamenti artificialmente legati a macchinari.
Il CNB ha voluto specificare che la risposta al quesito vuole porsi a tutela dei soggetti più fragili e vulnerabili, ritenendo che altri interventi di supporto debbano invece essere garantiti e non possano essere confusi o equiparati a TSV. Sulla complessità dell’argomento merita di essere letta l’ottima sintesi di Ognibene su Avvenire.
Com’è naturale che sia, al documento del CNB sono seguite immediate prese di posizione di parere diverso: indubbiamente però è un segnale “forte” di un ripensamento in corso rispetto alle tematiche di fine vita. Di recente la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) ha respinto un ricorso contro un Paese membro accusato di non aver voluto riconoscere nel proprio ordinamento il diritto al Suicidio Assistito, ribadendo che non esiste un “diritto a morire”, anche laddove si riconoscano delle condizioni di non punibilità, limitate e circoscritte, per l’aiuto al suicidio.
Temi difficili, certo, ma che innanzitutto dimostrano che la discussione è ancora aperta e che non è vero che solo in Italia siamo così arretrati da negarne il diritto – come sostengono molte campagne mediatiche per la legalizzazione del Suicidio Assistito e dell’Eutanasia. Nella maggior parte dei Paesi del mondo in realtà non sono legali, e l’Associazione Medica Mondiale ha ribadito che porre fine alla vita con interventi diretti non è un atto medico.
Lo ha spiegato con grande ricchezza di argomentazioni la giurista Giovanna Razzano (componente del CNB) in una lettera su Quotidiano Sanità in risposta al noto bioeticista Maurizio Mori (altro componente del Comitato, assai critico con il parere espresso dalla maggioranza): chi volesse approfondire l’ampiezza dei temi in questione può approfittare della lettura qui.
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