La filosofia dello sguardo

Da Platone a Galimberti, una filosofia che vede lo sguardo alla base delle relazioni, uno specchio in grado di mostrare all'altro la parte migliore di noi.
(Foto di pexels, cottonbro)

«Se con la parte migliore del tuo occhio, che è la pupilla, guardi la parte migliore dell’occhio dell’altro, vedi te stesso». Questa frase ci è stata lasciata da un certo Aristocle, uno dei più grandi pensatori che ci siano mai stati sulla terra. A lui fu dato il soprannome di “Platone”, che in greco significa “spalle larghe”, perché da giovane praticava la lotta e il pancrazio, un altro sport di combattimento. Ebbene, questo Platone, con la sua frase sulla pupilla, dice qualcosa di sorprendente: è nell’altro che trovo me stesso.

Per l’antico filosofo greco, la relazione viene quindi prima dell’identità. Anzi è proprio dalla relazione che nasce l’identità. Un bel ribaltone rispetto a quanto si pensa oggi: che per essere felici bisogna innanzitutto pensare a se stessi. Spesso  si sente dire da qualcuno che vuol dare una svolta alla propria vita: «Adesso voglio pensare a me stessa, voglio pensare a me stesso». Secondo Platone, fare così non porta a nulla. Perché noi ci “vediamo” solo nella pupilla dell’altro. Umberto Galimberti, filosofo e psicoanalista, commenta: «Noi nasciamo dal corpo di una donna, fin che è gravida siamo in due, io e lei, poi il bambino nasce e diventa uno. È il due che genera l’uno. Non è che uno più uno fa due».

Bisogna però pesare bene le parole del filosofo greco: lui non parla di una relazione qualsiasi, ma di quella della parte migliore di noi, rappresentata dalla pupilla, con la parte migliore dell’altro. Solo con questo tipo di relazione ci si vede nell’altro, in tutta la propria bellezza, in tutta la propria singolarità, come pezzo unico del creato. Dalla filosofia, queste considerazioni tirano per la manica la teologia. In un passo ben noto del vangelo secondo Matteo, Gesù di Nazaret afferma che dove due (o più) sono uniti nel suo nome lui è lì, presente in mezzo a loro. Per i credenti, è lui che diventa garanzia della qualità del rapporto. Chi ha sperimentato questo lo può affermare senza timore di sbagliarsi. Quando la relazione raggiunge quella qualità ci si sente se stessi, ricchi di gioia, liberi, nella verità, pieni di entusiasmo e creatività, sereni “come un bimbo svezzato in braccio a sua madre”. Perché ci si “vede” nella pupilla dell’altro.

La bella intuizione di Galimberti, che è dal due che nasce l’uno, può perciò essere estesa: è dal tre che nasce l’uno. Con Gesù presente fra i due, garanzia della genuinità della relazione. Una relazione di questa qualità non è appannaggio dei soli credenti. Nel testo di Matteo non sono specificate le caratteristiche che devono avere i due interlocutori. Dice solo che devono essere uniti nel suo nome, quindi aperti alla verità, protesi verso l’infinito. Tutti insomma possono essere pupilla per l’altro, per l’altra.

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