Il nostro amico Jan

Cadendo ed ogni volta rialzandosi, aveva visto crescere intorno a sé una rete protettiva nel percorso di riconquista della sua dignità di uomo  
Strade di Roma pixabay.com/it/

«Questo è mio fratello» dichiarò Jan, presentandomi ad un suo connazionale, un polacco, che osservò sorpreso: «Non sapevo che avessi un fratello in Italia». Intervenni io a chiarire: «Jan ed io ci chiamiamo fratelli non perché abbiamo lo stesso sangue ma perché siamo più che amici». Questo scambio di battute risale ai primi anni del Duemila.

Il luogo: piazza Vittorio all’Esquilino, all’epoca un parco molto frequentato da immigrati dell’Est Europa, da nordafricani e da asiatici. Ci eravamo conosciuti proprio in quel quartiere multietnico a due passi da Termini, diventato “casa” per Jan a conclusione di un itinerario sofferto che aveva fatto di lui, pur provvisto di regolare permesso di soggiorno, un senza fissa dimora.

Sposato giovanissimo e presto separato, dalla sua cittadina di Kozuchow in Slesia era arrivato a Roma nel 1991, a 38 anni, per poi venire assunto in un cantiere edile: lavoro interrotto a causa di un serio incidente che gli aveva lasciato problemi di deambulazione. Per di più la sua nuova compagna era morta di cancro.

Solo e senza mezzi, Jan si era lasciato andare, rifugiandosi nell’alcol. A questo vissuto fatto di perdite e di notti sotto le stelle, tra un cartone e una coperta, corrispondevano un carattere mite e riflessivo, una capacità di relazionarsi correttamente, frutto certo dell’educazione ricevuta.

Quello stesso giorno, festeggiavo con lui la sua prima pensione d’invalidità ottenutagli dai servizi sociali, poco più di 200 euro insieme agli arretrati di oltre 3 mila euro: una somma, quest’ultima, che si era affrettato a depositare aprendo un conto banco posta.

Seduti in un bar del quartiere San Lorenzo, sorseggiando un caffè che per la prima volta aveva potuto offrirmi, esprimeva la sua soddisfazione per avere acquistato degli slip secondo i propri gusti: un piacere ignoto a lui, che per vestirsi si era sempre servito di ciò che gli passavano altri. «Era finalmente qualcosa di mio», concluse con quel tono profondo di voce e quell’inflessione che mi ricordavano papa Wojtyla.

Conversavamo piacevolmente, serenamente, dimentichi per un momento dei trascorsi drammatici della nostra amicizia. Come quando andavo a scovarlo negli angoli più remoti dell’Esquilino per portargli qualcosa da mangiare o con cui coprirsi nelle notti umide e gelide d’inverno; quando costituiva un’impresa per le mie forze trascinarlo ubriaco e barcollante sotto il riparo di un portone. Episodi che appartenevano al passato, ma, considerate le sue fragilità, potevano ripetersi malgrado si mantenesse sobrio da circa tre anni, avendo iniziato un percorso di recupero dall’alcol presso il Policlinico Umberto I.

Ma ora, in quel bar, si parlava di tutt’altro: scoprivo in Jan l’appassionato di libri per migliorare il proprio livello culturale; l’amico degli animali, che avrebbe voluto un uccellino oppure dei pesci rossi da accudire; l’amante di piantine grasse, che disponendo di qualche moneta comprava per dare un tocco di bellezza all’ospitalità di turno (dal San Michele all’Ardeatino al Centro d’accoglienza di via del Mandrione, da quello di Castelverde all’Ostello di via Marsala e, ultimo, al Centro dell’Esercito della Salvezza)…

Desideri semplici, ma irrealizzabili per un alcolista che non aveva un luogo stabile e soltanto ora poteva contare su quella pensione, costretto a sottoporsi a regolari controlli neurologici presso un ambulatorio Caritas…

Rifarsi una famiglia? Ora come ora, quale donna avrebbe accettato di condividere l’esistenza con uno nelle sue condizioni, esposto al rischio di possibili ricadute, se non per pietà?

Intanto in altri angoli di Roma avevo preso contatto, casualmente, con persone fra loro collegate, che – quasi una rete protettiva – accompagnavano Jan nel percorso di riconquista della sua dignità di uomo: Nicoletta e Alfonso, dai quali trovava un divano comodo, un pasto caldo e la certezza di trascorrere i suoi Natali in famiglia; Monika, polacca pure lei, porto sicuro per la libertà di parlare la stessa lingua; Valentina, con cui condividere sogni e confidenze; Luigi, insieme al quale fumare una sigaretta, valutare possibilità di lavoro.

Io poi, abitando nei pressi dei luoghi da lui frequentati, ero il più indicato a rintracciarlo quando non si faceva vivo per troppo tempo o non rispondeva al cellulare. Avvisato da una telefonata di Nicoletta, andavo alla sua ricerca e il più delle volte riuscivo a sorprenderlo, come temevamo, mentre si riprendeva da un’ubriacatura con un’espressione umiliata e patetica che suscitava tenerezza.

Con ognuno di noi Jan aveva avuto un approdo diverso, con ognuno il rapporto era unico. Sfidando un destino che sembrava già segnato, cadendo ed ogni volta rialzandosi, aveva visto crescere intorno a sé questa rete di amicizie e gioiva delle cene periodiche in pizzeria o a casa di Nicoletta, quando ci ritrovavamo per festeggiare la sua astinenza di un mese e per studiare progetti futuri.

 Nel dicembre del 2017, all’improvviso e senza avvisare nessuno, Jan fa ritorno in Polonia per restarvi. A Valentina e Monika, che lo rintracciano al telefono, si giustifica adducendo due motivi: la madre anziana bisognosa di assistenza e la nuova compagna ritrovata.

Come prima nostra reazione, il timore che la lontananza dalla “rete” potesse pregiudicare il suo recupero. Poi, com’era prevedibile, negli anni i contatti con alcuni di noi si sono andati diradando, senza però venir meno, per lo più tramite facebook. Il commento di Nicoletta: «Forse ha bisogno di una donna che lo coccoli molto, stando alle foto che manda di loro due». Dopo tanto tribolare, Jan era riuscito a ricostruirsi una famiglia. E in seno ad essa, lo scorso dicembre, il nostro amico ha chiuso gli occhi.

 

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