Il grande dilemma della Francia

Oltralpe si va a elezioni politiche anticipate (30 giugno e 7 luglio) dopo lo scioglimento del Parlamento voluto da Macron, in seguito al flop delle europee. La destra al potere?
Il presidente francese Emmanuel Macron al Consiglio europeo di Brussels, Belgio, 28 giugno 2024. Ansa EPA/OLIVIER MATTHYS

Chi conosce un po’ la Francia, sa bene che ci sono i parigini e ci sono tutti gli altri. Se la testa è indubbiamente nella capitale, che coi suoi sobborghi ha grosso modo un abitante su quattro, la pancia del Paese è altrove e non sempre va d’accordo con la testa. Già la lunga stagione dei gilet jaune aveva allertato gli osservatori: i francesi in provincia – invece in minoranza nella regione di Parigi – sono sempre più insofferenti verso una politica fatta da professionisti predestinati, quelli che hanno studiato nelle Grandes Ecoles, tipo l’Ena (Ecole Nationale d’Administration), tipo il Polytechnique (prestigiosissima università per ingegneri umanisti), o ancora SciencesPo (cioè Scienze Politiche, quella di Enrico Letta per intenderci).

Quasi tutti i politici che hanno calcato la scena parigina negli ultimi 70 anni sono prodotti di un sistema sì democratico (chi ci riesce è ammesso senza alcun privilegio di censo) ma altamente élitista (è difficile entrare in politica se non si fa parte degli ex-allievi di queste scuole). È un tale sistema che viene sempre più messo in discussione dalla “pancia” dei nostri cugini. Emmanuel Macron è un tipico esempio di questa élite, che pure ha le sue indubbie qualità: prepara infatti a gestire la cosa pubblica nella laicità più assoluta, acquisendo un alto senso dello Stato e dei suoi apparati (l’Ena non a caso si chiama così), costruendo negli studenti una cultura giuridica, economica ed ingegneristica (grande spazio viene dato a matematica e statistica) ma anche umanista ed enciclopedica. Un polytechnicien è capace di misurare l’impatto economico di una legge con facilità, ma è anche capace di discettare dei Sermoni di Agostino o delle cento etnie del Caucaso. In queste alte scuole si insegna la governance, e si impara a prendere le decisioni con una visione globale delle cose, dei fenomeni e delle condizioni sociali.

Macron ha un curriculum tecnico e umanistico di tutto rispetto, avendo fatto esperienza come assistente universitario di Paul Ricoeur, uno dei maggiori filosofi francesi del secolo scorso, ma anche come direttore del marketing per la Rotschild & Co. Un uomo dai salotti buoni, dunque, ma capace di far discorsi di grande apertura e umanità. Più volte, nei Paesi francofoni d’Africa, ha sostenuto che i popoli del continente nero dovrebbero camminare finalmente con le proprie gambe, dando spazio alla loro genialità; ma nello stesso tempo ha protetto i grandi consorzi neo-colonialisti operanti in quei Paesi. Qual è il vero volto di Macron e di tutti i suoi predecessori, di centro-sinistra o di centro-destra che fossero? Tutti questi presidenti – da Pompidou a Mitterrand, da Chirac a Hollande – avevano nel loro agire una chiara disposizione sistemica favorevole al potere costituito, verso il centro dello scacchiere politico dunque, eventualmente rivoluzionario solo a parole. Cosa c’era di più “integrato” e a suo modo “monarchico”, ad esempio, della politica di Mitterrand il socialista, uomo con pochi scrupoli, se è vero che, per salire nella popolarità pubblica, aveva “inventato” un attentato contro la sua persona?

C’è tutto questo, e molto altro ancora, nella crescita sia della destra (una volta detta “estrema”) incarnata da Marine Le Pen e dal suo fido scudiero Bardella (con l’alleanza contestata dai suoi del gollista Ciotti), sia della sinistra (anch’essa più tendente al centro di una volta) incarnata da Mélenchon. Macron sa bene, però, che il Paese, quasi per un istinto di conservazione, nel momento delle scelte epocali ha finora evitato di consegnare alle estreme il Paese: nelle ultime elezioni presidenziali, Macron è stato votato al primo turno solo da un francese su quattro, mentre la restante fetta di elettorato che lo ha portato alla presidenza per la seconda volta lo ha votato al secondo turno turandosi il naso, solo perché non voleva vedere Marine Le Pen all’Eliseo. Forse c’è questa convinzione dietro la scelta di Macron di sciogliere le camere, da una parte (Piano A) sperando che l’istinto di conservazione funzioni di nuovo, avendo però come Piano B la salita a Palazzo Matignon, il Palazzo Chigi dei francesi, della destra, ma per portarla al “logoramento da potere” in vista delle prossime elezioni presidenziali nel 2027, alle quali non potrà più partecipare dopo due mandati, sapendo che la democrazia presidenziale d’Oltralpe gli consentirà di tenere saldamente nelle sue mani la politica estera e la difesa. Piano C: un governo di minoranza dei suoi alleati, eventualmente con un accordo con certa sinistra.

Le urne diranno se Macron vincerà il Piano A, B o C, oppure se finirà per prevalere un Piano D con la conquista di Matignon da parte delle destre e poi anche dell’Eliseo. I sondaggi sembrerebbero indicare la vittoria della Le Pen con Bardella e Ciotti, ma le soprese nella politica dell’Esagono sono sempre possibili.

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