Israele, la guerra, il governo e gli haredim
Il governo israeliano guidato dal premier Benjamin Netanyahu potrebbe avere i giorni contati: è una sorta di mantra che ripetono in molti, a quanto pare, in Israele. Secondo alcuni sondaggi politici recenti, il governo sarebbe votato oggi da non più del 12-15% degli elettori, ma data la longevità politica di Netanyahu le profezie lasciano spesso il tempo che trovano. Gli israeliani che ogni sabato scendono in piazza a Tel Aviv e Gerusalemme sono sempre decine di migliaia e ultimamente non chiedono soltanto di fare di tutto per liberare gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, ma sempre di più accusano il governo di non dare priorità alla liberazione, chiedono le dimissioni di Netanyahu e nuove elezioni.
Da parte sua Netanyahu, spalleggiato dai suoi due “alfieri” dell’estrema destra, Ben-Gvir e Smotrich, continua come se nulla fosse la sua politica della guerra totale che non accetta nessun accordo con nessuno e mai; anche se poi ha dovuto accettare una sorta di ultimatum dell’esercito, che si è rifiutato di negare le pause giornaliere nei combattimenti per consentire la distribuzione di aiuti ai civili palestinesi. Decisione “umanitaria” duramente criticata dal ministro Ben Gvir.
Ancora ossessionato dall’annientamento di Hamas, che secondo alti militari israeliani non è riuscito e non può riuscire, Netanyahu adesso sta sempre di più insistendo sulla necessità di annientare anche Hezbollah con un intervento pesante in Libano. Il ministro degli esteri Israel Katz (del Likud) ha scritto recentemente su X, certamente non a titolo personale: «In una guerra totale, Hezbollah sarà distrutto e il Libano sarà duramente colpito», aggiungendo anche: «Siamo molto vicini al momento di decidere se cambiare le regole del gioco contro Hezbollah e il Libano. Israele pagherà un prezzo ma ristabiliremo la sicurezza per i residenti del nord», cioè della Galilea bersagliata dai lanci quotidiani di migliaia di missili.
Sul fatto di riuscire veramente nell’impresa, molti esperti nutrono dubbi, dato l’enorme arsenale di Hezbollah (forse 150 mila missili e razzi) e una disponibilità di miliziani addestrati che sarebbe tra 50 e 100 mila uomini.
Una dura critica alla tenuta del governo l’ha espressa tra gli altri anche il Jerusalem Post, che scrive: «Le crepe nell’attuale regime si stanno manifestando e allargando, dando l’impressione che il governo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu barcolli». E aggiunge che i governi come gli imperi non cadono da un giorno all’altro, ma si sbriciolano un pezzo alla volta sotto «il peso dell’ambizione, dell’arroganza, dell’incapacità di adattarsi e della perdita di contatto con i bisogni della gente».
L’altra questione che mette in potenziale crisi il governo israeliano è l’antica e mai risolta questione dell’esenzione dal servizio militare degli studenti delle Yeshivot, le scuole rabbiniche in cui i giovani ultraortodossi (haredim) si dedicano a tempo pieno allo studio della Torah e del Talmud. Gli ultraortodossi rappresentano il 15% di tutti gli ebrei israeliani e i loro giovani in età di arruolamento sono ormai 67 mila. L’esenzione di cui godono non è mai diventata una legge dello Stato, ma è un provvedimento amministrativo temporaneo continuamente rinnovato.
Nei giorni scorsi, la Corte Suprema israeliana (il tribunale che Netanyahu avrebbe voluto controllare, senza riuscirci) ha stabilito che alla scadenza dell’ennesima proroga amministrativa gli uomini ebrei ultraortodossi devono essere arruolati.
Il problema sorge per il fatto che i due principali partiti ultraortodossi, Shas (per i sefarditi) e United Torah (per gli ashkenaziti), sostengono l’attuale governo, che senza il loro appoggio non avrebbe la maggioranza alla Knesset (il parlamento). Se i giovani haredim dovessero obbligatoriamente fare il servizio militare (32 mesi per gli uomini e 24 per le donne) e soprattutto se venisse bloccato il sostegno economico pubblico (circa 400 milioni di dollari l’anno di stipendi e finanziamento delle scuole), i leader dei due partiti ultraortodossi minacciano non solo di togliere l’appoggio al governo, ma addirittura di lasciare il Paese. Come sempre si sta delineando un compromesso, comunque molto precario.
Alla fine, i toni roboanti di Netanyahu e dei partiti di destra sull’invasione del Libano si sgretolano di fronte ai dissensi interni e alle pressioni esterne.
Ma di pace, quella vera, si riuscirà mai a parlarne e a farla?