Beethoven secondo Daniele Gatti
Pura contemplazione. Silenzio assoluto. Folta presenza giovanile disinvolta. E alla fine un rombo di applausi. La Sesta Sinfonia “Pastorale” è guidata da Gatti con una interpretazione personale di notevole bellezza. Privilegia i legni – le prime parti ottime -, ossia il suono degli uccelli nella campagna mentre gli archi fanno un brusio. Dolcezza, tempi accelerati o rallentati per far espandere l’emozione di Beethoven – che poi è la nostra – davanti alla bellezza senza parole della natura.
Non è una musica descrittiva, ma una musica immersiva. Beethoven e noi siamo dentro alla natura, al suo essere che ci rapisce. La “scena presso il ruscello” – secondo tempo – è di una morbidezza avvolgente, il suono cresce e diminuisce largamente fino al tempo successivo del catastrofico temporale che arriva improvviso, tremendo, a piena orchestra, e poi si sforma nel lunghissimo inno di ringraziamento per la pace ritrovata.
Gatti colpisce al cuore la sinfonia, cioè la poetica di Ludwig, artista pieno di passioni, di violenza e di mitezza. Gli archi dell’orchestra ceciliana sono meravigliosi: pastosi i contrabbassi dolcissimi, cantano i violoncelli e la purezza dei violini è da manuale. Una grandissima pace, una quiete ed una consolazione scende sul pubblico. Gatti dirige senza teatralità, con esatto dominio del colore, del fraseggio, del suono dell’insieme, fuso in una luminosa unità.
Così accade pure nella Settima Sinfonia, vorticosa, dinamica e cantante (secondo movimento). E così era apparso nella Terza, l’”Eroica”. Anche in queste opere è evidente la gioia di Gatti e dell’orchestra di “fare musica insieme”. L’attenzione alle sfumature è chiarissima, in particolare nella Marcia funebre – secondo tempo – dove il dolore che si apre alla luce è la cifra interpretativa, spirituale si direbbe, seguita poi dall’energia travolgente (troppa?) degli ultimi movimenti in cui il carattere passionale del direttore trova libero sfogo.
Sembra di ascoltare le sinfonie per la prima volta. Eppure, di interpretazioni da parte di direttori e di orchestre – dalla chiarezza di Toscanini al fasto di Karajan, dal tumulto di Bernstein all’intensità di Giulini e alla lucidità di Abbado – ne abbiamo ascoltato parecchie. Gatti, nella piena maturità, offre liberamente la sua voce che non è enfatica o meccanica ma emozionale, precisissima e pronta a lasciare liberi gli strumentisti di “suonare”, come i legni-uccelli nella Sesta sopra la luce morbida degli archi. Vale la pena domani – 27 giugno – di non perdere l’Ottava e la Nona.