Autonomia differenziata, intervista a Giovanni Guzzetta

Un contributo al dibattito sul ddl Calderoli di applicazione del Titolo V della Costituzione. Il punto di vista favorevole alla riforma presentata dal governo Meloni da parte del giurista, professore di Diritto pubblico presso l’Università di Roma Tor Vergata
Roberto Calderoli (S), ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, assieme a Matteo Salvini, leader della Lega ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Sulla questione complessa della riforma dell’autonomia differenziata alla fase finale di approvazione in Parlamento, abbiamo ascoltato il parere di Giovanni Guzzetta, professore di Diritto Pubblico dell’Università di Tor Vergata, nell’ottica di acquisire elementi per un approfondimento necessario ad un dibattito pubblico.

Da giurista, il professor Guzzetta è entrato più volte nel merito delle riforme istituzionali. È stato, ad esempio, coordinatore del comitato InsiemeSicambia per il sì al referendum sulla riforma costituzionale del 2016.

Questo contributo rientra nel focus di approfondimento promosso da Città Nuova al quale contribuisce il Mppu Italia. Vedi focus dedicato.

 Prima di entrare negli aspetti più tecnici e nelle motivazioni, le chiediamo di anticipare una valutazione generale del Ddl Calderoli e del Titolo V della Costituzione riformato nel 2001. È l’occasione per migliorare efficacia ed efficienza dei servizi ai cittadini oppure è in grado di condurre ad un drammatico aumento delle disparità già esistenti tra regioni, in particolare tra Nord e Sud?
Francamente, leggendo il ddl Calderoli, non riesco a capire il nesso tra la riforma e gli asseriti effetti lesivi per il Sud. E confesso mi pare anche molto demoralizzante, da cittadino meridionale. L’idea che una maggiore possibilità di efficienza sia riservata solo alle regioni del Nord mi sembra esprimere una cultura della resa, fortemente conservativa. È come dire che l’unica chance per il Sud sia l’assistenzialismo eteroguidato dal centro.

E per la questione delle risorse economiche?
Sul piano finanziario non c’è nessuna penalizzazione per il Sud e anzi vengono ribadite le esigenze di particolare tutela per i territori più in difficoltà. L’Italia tutta ha bisogno di maggiore efficienza, migliori servizi e minori sprechi. Non vedo perché questa non sia una sfida che anche il Meridione deve e può raccogliere. La cultura assistenzialistica (che è cosa diversa dal doveroso sostegno a chi è in condizioni di maggiore difficoltà) non può essere la giustificazione per l’immobilismo e un atteggiamento culturalmente parassitario. Anche perché la situazione finanziaria è talmente drammatica che l’assistenzialismo è una strada sempre meno percorribile. Le regioni meridionali debbono cambiare paradigma, sennò dall’assistenza finiremo per passare all’elemosina. Io ritengo che in termini di energie, di capacità e di cultura ne abbia tutte le possibilità e meriti di più delle elemosina.

 Il Titolo V riformato nel 2001 afferma il principio di sussidiarietà verticale, non solo tra Stato e Regioni, ma tra Regioni, Città Metropolitane, Province e Comuni. Tale sussidiarietà, in linea di principio, oltre a venire incontro alle specificità dei territori, dovrebbe avvicinare i servizi ai cittadini, dando loro un maggior controllo su come vengono spesi i soldi delle tasse da essi pagate. Ritiene che tale principio sia valido, ben espresso dall’attuale Titolo V e, infine, ben rispettato dal ddl di attuazione?  Se no, perché?
Purtroppo la riforma del titolo V ha, tra gli altri, il limite dell’incompiutezza. Essa era stata pensata come cornice per la realizzazione di quel principio di responsabilità di cui lei parla e che si incarna solo con il federalismo fiscale, in cui chi spende ha anche la responsabilità di chiedere ai propri cittadini le risorse e di rispondere per come le ha spese.

Invece il nostro regionalismo è rimasto fondato sul principio del trasferimento di risorse dallo Stato. Chi chiede non è chi spende e quindi chi spende non risponde per le proprie scelte.

La riforma fiscale è rimasta incompiuta, così come quella fondata sull’idea che si definissero le garanzie minime da assicurare a tutti attraverso la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. È assurdo che, dopo 23 anni, ancora si debba legiferare per definire molti dei livelli essenziali delle prestazioni, come finalmente prevede il ddl Calderoli.

 L’aspro dibattito sul ddl Calderoli evidenzia una profonda spaccatura tra l’attuale maggioranza parlamentare e le minoranze. Il ddl Calderoli è solo una legge di attuazione della riforma costituzionale del Titolo V avvenuta nel 2001 per volontà dell’allora maggioranza di centro-sinistra con la contrarietà dei partiti di centro-destra (che oggi invece la vogliono attuare). Ciò significa che c’è stato un opposto ripensamento da parte delle forze politiche di centro-sinistra e di centro-destra sui contenuti della riforma oppure si è trattato nel 2001, e si tratta oggi, soltanto di opposizione strumentale tra maggioranza e opposizione?
Ciò conferma che purtroppo i dibattiti politici in Italia sono molto più fondati su parole d’ordine ideologiche e sul frontismo delle fazioni che sul merito dei problemi. Problema antico, ahimè. La riforma del titolo V non è una riforma perfetta, ma l’averla sostanzialmente disattuata, come del resto le precedenti norme costituzionali in materia, l’ha resa monca e ha impedito che si realizzassero le sue potenzialità positive.

 L’articolo 9 del ddl Calderoli afferma, tra l’altro, che le intese tra Stato e Regioni che chiedono maggiore autonomia non possano pregiudicare l’entità delle risorse da destinare a ciascuna delle altre Regioni. Nonostante questa affermazione, da molte parti si teme o si è certi che l’aumento dei tributi trattenuti dalle regioni che otterranno l’autonomia per finanziare le nuove competenze (presumibilmente alcune regioni del nord, almeno all’inizio) si ritorcerà contro le regioni più povere che avranno a disposizione meno risorse finanziarie da parte dello Stato (tipicamente nel sud). È fondato questo timore?  Sono sufficienti i controlli e gli aggiustamenti annuali da parte della Commissione paritetica e del MEF previsti dall’articolo 8?
La premessa di chi sostiene questa tesi è semplicemente falsa. Come ricorda lei stesso, l’art. 8 non prevede alcun trattenimento di residui fiscali alle regioni che chiedono l’autonomia. La scommessa (e dovremo vedere se qualcuno sarà in grado di vincerla) è che a risorse invariate maggiore autonomia produca maggiore efficienza nella gestione dei servizi e quindi risparmi che potrebbero essere investiti per allargare le tutele. Sul piano strettamente finanziario chi sceglie l’autonomia non ha alcun vantaggio. Gestirebbe le risorse che prima erano gestite dal centro, ma dovrebbe assicurare gli stessi servizi che, con quelle risorse, erano finanziati.

 L’articolo 10 prevede una serie di misure perequative e solidali da applicare a tutte regioni, in particolare quelle che non chiedono ulteriori forme di autonomia. Che ragionevole garanzia si può avere (o non avere) sull’applicazione effettiva di tali misure?
Non so che garanzia si possa avere, ma non si può certo imputare a chi le prevede la responsabilità di una eventuale inattuazione della previsione. Peraltro si tratta di attuazione di norme già contenute nella Costituzione. Se inattuazione c’è stata la responsabilità è di tutti coloro che hanno guidato il paese dal 2001 a oggi.

Un punto critico del ddl è che nell’articolo 9 si afferma che ogni intesa tra Stato e Regione non deve comportare “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, ma questo per le materie non soggette ai LEP(Livelli essenziali delle prestazioni). Per quelle soggette ai LEP invece ci possono essere (e ci saranno sicuramente) nuovi oneri che dovranno essere finanziati con i normali strumenti di programmazione economico-finanziaria. Cosa succede se non si riuscisse a finanziare tutti o alcuni LEP? Questa condizione potrebbe rendere inattuata gran parte di un’intesa Stato-Regione? 
Su questo punto esiste un grande equivoco, generato dalla mancanza di coraggio delle classi dirigenti di essere intellettualmente oneste con i cittadini. I LEP non sono e non possono essere una variabile totalmente indipendente dalle risorse disponibili. La “misura” della garanzia è condizionata dalle disponibilità economiche e anche da altri fattori (tecnologici, organizzativi, di modifica dei “bisogni” nel tempo). Pensare di definire i LEP in astratto e una volta per tutte, come se fossero scolpiti nella pietra, non è quello che prevede la Costituzione ed è pura demagogia.

Ma non esistono in merito sentenze della Corte costituzionale?
È vero che la Corte costituzionale ha detto che i LEP una volta definiti non possono essere condizionati dalle risorse, ma non ha mai detto che nel definire, a monte, i LEP non si debba tenere conto delle risorse disponibili in un dato momento storico. Sarebbe bello, ad esempio, che ci fossero i bus dedicati a tutti gli studenti che debbono andare a scuola, ma se realizzarli è economicamente insostenibile bisognerà fare delle altre scelte che magari saranno subottimali rispetto alla prima, ma che sono le uniche che ci possiamo permettere. La speranza come dicevo è che maggiore efficienza organizzativa e di gestione, una pubblica amministrazione più capace, una razionalizzazione della spesa, possa assicurare risparmi che innalzino i livelli essenziali.

Ad oggi i LEP sono definiti quasi per nulla e ci sono disparità evidenti tra i servizi erogati nelle diverse regioni. L’attuazione del Titolo V potrebbe essere l’occasione per risolvere il problema o sarebbe meglio affrontare i LEP prima e indipendentemente dall’attuazione del Titolo V?
I LEP costituiscono un obbligo costituzionale che prescinde dal fatto che ci sia o meno l’autonomia. Dovendo essere comunque garantiti a tutti, che ci sia l’autonomia differenziata o meno è un fatto del tutto neutro rispetto all’esigenza di assicurare comunque i livelli essenziali. Anche se lo stato fosse centralizzato, per assurdo, bisognerebbe garantire a tutti i medesimi livelli minimi. Il che rende ancor più evidente la gravità del fatto che per 23 anni non sia stato fatto. Dov’erano in questi 23 anni quelli che oggi si stracciano le vesti. Com’è che se ne accorgono solo adesso?

I LEP costituiscono i livelli minimi delle prestazioni, sotto i quali non si potrà andare. Anche se i LEP fossero completamente finanziati a livello nazionale, le regioni autonome più virtuose potrebbero migliorare i propri servizi creando comunque disparità tra regioni diverse. Ritiene che ciò sia legittimo e che possa innescare un ciclo virtuoso di emulazione e buone pratiche o pensa che sia preferibile la totale omogeneità dei livelli di servizio per non creare disparità tra i cittadini?Sostenere che chi fa meglio crea disparità rispetto a chi non è in grado o non vuole far meglio è come dire che è più equo stare tutti peggio. Gli unici di cui ci dobbiamo preoccupare sono coloro che vogliono sinceramente far meglio, ma non hanno le opportunità. Per questo sono previste forme perequative. Ma se qualcuno è in grado già da adesso di far meglio, tarpargli le ali è non solo sbagliato, ma anche masochistico perché ci priva di sperimentazioni che possono essere poi utilizzate da altri e ci priva di una crescita di cui comunque beneficia tutto il Paese.

Quali altri aspetti del ddl Calderoli e/o del Titolo V le sembrano più problematici e perché?
Francamente quello che mi sembra problematico è la resistenza di pezzi di classi dirigenti, di pubbliche amministrazioni e di politici che difendono lo status quo perché evidentemente li tiene al riparo dalla necessità di misurarsi con il cambiamento. E mi dispiace che tutto ciò sia venduto come una punizione del Mezzogiorno. In realtà io credo che il potenziale del Mezzogiorno sia enorme e che ci siano interessi perché i meridionali non credano in se stessi convincendoli che sono oggetto di un “saccheggio”. Ma siccome io conosco il Sud e vengo dal Sud so benissimo quanti sono coloro che non credono più a questa storia, che soffrono per le satrapie burocratiche e per il giogo cui li sottopongono classi dirigenti che spesso non sono all’altezza delle proprie responsabilità.

 Quali altri aspetti del ddl Calderoli e/o del Titolo V le sembrano invece più positivi e perché?
Io credo che il ddl Calderoli, che peraltro, non fa altro che attuare una norma costituzionale, sia un’opportunità. Ne abbiamo avute altre in passato. La Cassa per il Mezzogiorno all’origine fu una grande opportunità e diede anche i suoi frutti. Poi l’intervento straordinario fu oggetto dell’arrembaggio di opportunismi di ogni genere che lo trasformarono in occasione di sprechi e approfittamenti, alimentando quella cultura dell’assistenzialismo che fa male innanzitutto al Meridione, perché uccide la spinta all’innovazione, al coraggio, all’intrapresa.

Credo dovremmo evitare che anche questa sia l’ennesima occasione sprecata. È un interesse di tutti. E il mio invito è quello di non assuefarsi alle parole d’ordine ideologiche e allo status quo. Vigiliamo invece perché questa sia effettivamente un’opportunità per tutti e se c’è da migliorare sforziamoci per farlo.

Per esempio, spingiamo perché anche sul versante del federalismo fiscale si realizzi la promessa che già il Costituente aveva fatto e che il nuovo Titolo V ha cercato di concretizzare: diamo a chi spende la responsabilità di chiedere e la responsabilità di rispondere su come ha utilizzato ciò che ha chiesto. Questo è il fondamento della democrazia

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