E le guerre continuano

Mentre il G7 teneva i suoi lavori nel lusso pugliese, chi parlava di Shasha, di Myhaylo, di Ali o di Amos che muoiono senza ragione?
Un momento durante la manifestazione contro la guerra in Ucraina, Roma, 5 Novembre 2022. ANSA/GIUSEPPE LAMI
Al G7 di si è giocato allo slogan più pungente, alla toilette più applaudita sui social, ai tortellini più gustosi, alle inimicizie più stridenti, agli slogan elaborati più efficaci. Mentre in Ucraina e a Gaza si continua a morire, i mercanti d’armi brindano allo champagne, le Ong non sanno più che fare dinanzi alla crescita dell’emergenza mondiale e alle parallele diminuzioni delle donazioni. I governi si accontentano di non superare certe soglie di non ritorno.
L’unica nota positiva sul fronte bellico, pensiamo al caso del Donbass, ma anche a Taiwan, alla Siria e allo Yemen, è che sembra crescere la coscienza che una guerra nucleare sarebbe la condanna a morte per l’umanità. Sembra esserci questa consapevolezza, nelle parole pur belligeranti presentate dai protagonisti del G7, come da Putin, Xi, Erdogan e via dicendo, parole che sembrano non varcare le linee di non ritorno, non esplicitamente ricordate ma pur sempre presenti nella diplomazia. Si provoca, si mostrano i muscoli, si sforano i confini, ma si resta al di qua della provocazione definitiva e destabilizzante. Così, checché se ne dica, gli alleati occidentali dell’Ucraina predicano sfracelli sul campo e armano la minaccia con sempre nuove armi, ma evitano accuratamente di spingere l’occupante del Cremlino contro il muro, il che vorrebbe dire costringerlo a usare armi distruttive di massa, innestando la spirale della catastrofe.
Così Pechino fa volare centinaia di bombardieri attorno all’isola Taiwan, ma sta bene attenta a non sganciare la minima bomba sugli obiettivi sensibili, obbligando Taiwan e i suoi alleati a premere a loro volta il grilletto di qualche marchingegno informatico. Così si discute tanto di intelligenza artificiale applicata alle tensioni internazionali, ma ancora non si dà vera autonomia alla gestione delle guerre all’automatismo dell’intelligenza artificiale, se si escludono alcuni “sciami di droni” nelle guerre del Dombass e i droni per il riconoscimento facciale a Gaza e dintorni. Insomma, sembra proprio che i grandi di questo mondo non vogliono passare alla storia come coloro che hanno aggiunto la fatidica goccia che fa traboccare il vaso.

Ma a Gaza, nel Donbass, a Goma e Kharkiv si continua a morire; si usano quelle zone come poligoni per consumare le produzioni belliche di apparati industriali pubblici e privati che continuano a produrre, ovviamente, orientando poco alla volta i sistemi economici dei singoli Paesi verso la modalità guerra, con tutte le conseguenze del caso. La soglia del 2 per cento del Pil per la difesa, tanto in voga dalle parti dell’Alleanza Atlantica, sono in realtà già più elevati, considerato l’indotto delle imprese belliche, mentre non pochi Paesi – in testa le grandi potenze – veleggiano già verso limiti del 6, 8, se non addirittura 10 per cento.
In questa questo clima, non pochi uomini e donne della politica hanno, con Benjamin Netanyahu in testa, tutto l’interesse a mantenere attiva la tensione bellica al più alto livello possibile, senza varcare però la soglia della guerra generalizzata, quella di una Terza guerra mondiale esplicita e dichiarata. Appunto, è questo il pericolo più grande che stiamo correndo: che la disperazione politica di un leader, destinato a lasciare il campo libero in corso in caso di cessazione delle ostilità, faccia superare la soglia del non ritorno. Il caso del premier israeliano e della minacciata guerra del nord contro Hezbollah è sotto gli occhi di tutti.
In tutto ciò manca crudelmente una qualità degli statisti veri, cioè la visione. A parte le parole di Bergoglio al G7, chi altro ha alzato lo sguardo al di là dei rispettivi orizzonti elettorali (vicinissimi almeno per Biden, Sunnak e Macron)? Non sono certo classificabili sotto il nome di “visione” il piano Mattei per l’Africa, né i progetti per contenere le migrazioni o quelli di collaborazione con la parte dell’Asia più povera avanzata dai vari stakeholder della politica mondiale. Simbolo di tutto ciò sono proprio le due guerre a noi più vicine, che sembrano avvitate su sé stesse, in un cupo fatalismo.

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