Una sola famiglia umana
Cinque giorni di immersione totale con circa cinquecento persone provenienti da tutto il mondo. Fra loro rabbini e rabbine, imam, sacerdoti cattolici e un ministro riformato, monaci buddhisti theravada e mahayana, ma anche monaci cattolici e, poi, laici ebrei, musulmani, cristiani, indù, buddhisti, sikh e baha’i. Giovani e anziani: un vero caleidoscopio a lungo pensato e, alla fine, realizzato per dare testimonianza, come recita il titolo della conferenza: One human family. Qualcuno – non presente – lo ha definito un titolo ‘banale’, sottolineato da un’altra convinzione – sempre da parte di un assente – della banalità di chi oggi si è fatto promotore di questa iniziativa.
Eppure, chi ha vissuto questi giorni concorda che sono state giornate trasformanti che hanno permesso di sperimentare una fraternità condivisa e vera. Vera perché non sempre facile. Una mattina un’amica ebrea mi ha confidato il suo disagio per quanto un musulmano aveva detto il giorno precedente. La reazione sarebbe stata ben diversa dieci anni fa, mi diceva. Il tempo ha affinato l’allenamento a dialogare con tutti e a tutti i costi. Quell’amica aveva capito che non poteva lasciare la porta aperta a sentimenti che l’avrebbero portata a reagire, soprattutto in questi mesi di guerre, stragi, rapimenti e sangue e di forte conseguente polarizzazione.
I primi due giorni del convegno li ho trascorsi con un gruppo di una cinquantina di animatori (ebrei, cristiani, musulmani, indù, buddhisti e baha’i) di questo dialogo, impegnati ad approfondire la spiritualità che permette di mettere in atto la pratica dialogica. Gli effetti prodotti da anni e decenni di pratica, tutt’altro che scontata, si sono fatti vedere in questi giorni. Un giorno, al termine del pranzo ho visto una ebrea ortodossa mangiare con musulmani. Un pomeriggio, due monaci parlavano con un gruppo di musulmane turche che abitano in Germania.
Soprattutto, questa volta, non si notavano più gruppi chiusi nella propria cultura, lingua o religione. Solo i monaci buddhisti anticipavano tutti per osservare l’orario del pranzo che nel sangha (la loro comunità monacale) prevede che si consumino i pasti prima delle 12. Il terzo giorno il gruppo è arrivato alle trecento persone, anch’esse di diverse etnie, culture e religioni e si è cominciato ad affrontare le questioni scottanti di oggi. Grazie ad esperti di diverse fedi si è parlato di religione e pace (con una attenzione particolare alle relazioni internazionali). Si è, inoltre, affrontato l’aspetto di religioni ed economia e anche religioni e intelligenza artificiale per concludere domenica – durante la giornata aperta con cinquecento presenti – con una tavola rotonda lunga ed articolata su ‘religioni e pace con il creato’. In quest’ultima, di fronte a una sala gremita e in assoluto silenzio, hanno parlato un cristiano americano, una buddhista giapponese, un rabbino di origine algerina e oggi residente a Tel Aviv, una indù del sud-India e un musulmano indonesiano. Come ha detto il rabbino, abbiamo colto scintille di sapienza e santità.
Si è trattato di sessioni impegnative, anche pesanti alcune, molto interattive altre. I protagonisti, tutti esperti con background diversi e con radici religiose ben definite, hanno contribuito ad una dimensione culturale di questa esperienza di dialogo, come forse non era mai successo in questi ambiti. Eppure, tutto questo mai a scapito della vita e delle esperienze nel quotidiano che hanno sempre fatto seguito a queste riflessioni culturali per mostrare che molti sono al lavoro con grande impegno, nella vita e sul territorio in varie parti del mondo, per realizzare e continuare quanto si diceva. L’impressione è stata quella di una esperienza unica nel suo genere, frutto di anni, spesso anche di decenni, di impegno, come mi diceva l’amica ebrea. Si tratta di persone che si sono trasformate nel corso degli anni, pur restando ancorate alla loro cultura e religione che hanno, anzi, approfondito grazie all’impegno del dialogo.
Non sono mancati anche partecipanti curiosi, venuti per vedere cosa è davvero una esperienza di dialogo. Mi hanno colpito alcuni cristiani impegnati, ma con una prospettiva attentamente autoreferenziale. Fra loro – mi auguro -, forse, qualcuno si è anche convinto che le cose non stanno come se le immaginava. Ma la convinzione è ben altra cosa e, spesso, anche un convegno ed una convivenza di questo tipo non sono sufficienti. D’altra parte, ho visto giovani, buddhisti, ebrei e musulmani e, anche, cattolici, sebbene in numero minore, che si sono entusiasmati e hanno deciso di dedicarsi a questa avventura dialogica. Parlando con una ventiduenne del nord Italia, mi sono reso conto di quanto il rapporto con coetanei della stessa generazione sia stato decisivo per scelte future.
Erano con me alcune studentesse del nostro istituto universitario Sophia. Il sentimento è stato quello di sentirsi trasformati da questa esperienza e non posso dar loro torto. È successo lo stesso anche a me. Mi sono sentito trasformato, nel cuore e nella mente, grazie a una avventura sempre più profondamente profetica che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni della mia vita e di cui non sarò mai abbastanza grato a coloro che me l’hanno proposta e incoraggiato a seguirla anche nei momenti, come quelli che stiamo vivendo, in cui sembrerebbe follia e, forse, proprio, ‘banalità’. Ma ciò che conta nel dialogo – soprattutto interreligioso – è esserci. L’assenza è quasi una colpa.
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