Kuwait: democrazia in stile arabo
Il Kuwait è un paese molto interessante sotto molti aspetti. Grande poco meno del Veneto, con 4,5 milioni di abitanti, di cui i cittadini kuwaitiani rappresentano circa un terzo. Gli altri circa 3 milioni sono stranieri residenti: molti i bidun (apolidi da generazioni) oltre ad egiziani, sauditi, filippini, bengalesi, siriani, palestinesi, indiani e pakistani. Ovviamente, oltre all’arabo e all’inglese si parla molto anche hindi, urdu e farsi. Da un punto di vista religioso, grande maggioranza di musulmani (sunniti e sciiti) ma anche una discreta minoranza di cristiani: arabi mediorientali presenti da più di un secolo e immigrati asiatici e da vari paesi del mondo. Una società decisamente multietnica. E questo è favorito da buone possibilità di lavoro, che in Kuwait significa: petrolio (scoperto nel 1938) e gas. In un paese che è uno dei primi 10 produttori al mondo di idrocarburi.
L’altro aspetto molto interessante è la politica: il Kuwait è famoso per avere a lungo espresso uno stile arabo di democrazia, nel quadro di una monarchia costituzionale (dal 1962) e di un piccolo Parlamento eletto. L’attuale emiro (capo dello stato) è l’84enne shaykh Meshaal al-Ahmad al-Jaber al-Sabah, 17° sovrano del Paese subentrato al fratellastro deceduto a dicembre 2023, ma i capi degli al-Sabah sono shaykh (persone autorevoli) dal XVIII secolo e dinastia reale del paese dal 1899, al tempo del mandato britannico, e dopo l’indipendenza ottenuta all’inizio degli anni 60 del secolo scorso. A livello elettorale, fino al 2005 avevano diritto di voto solo i maschi, non militari, e cittadini da almeno 30 anni. Vale a dire meno del 5% degli abitanti del Paese: una forma di aristocrazia elettorale. Dal 2005 il parlamento (50 membri eletti) ha esteso il diritto di voto alle cittadine kuwaitiane, portando la percentuale degli elettori al 10% della popolazione residente.
Il problema che si è creato da anni, e mai affrontato davvero, è lo scontro tra Parlamento e governo a proposito degli investimenti proposti dall’esecutivo per differenziare l’economia dello stato oltre il petrolio, avviando iniziative che dovrebbero sostenere il paese in futuro. Analogamente a quanto sta cercando di fare Mohammad Bin Salman al Sa’ud in Arabia saudita. Perché il petrolio finirà presto e la transizione ecologica è più che urgente a causa dei cambiamenti climatici, che anche in Kuwait sono particolarmente forti e preoccupanti.
Il nuovo emiro ha deciso di mettere mano alla questione dopo che il Parlamento ha di fatto bloccato la formazione del governo dopo le elezioni di aprile scorso: secondo il quotidiano panarabo al Arab – ripreso da internazionale.it –, l’intervento dell’emiro al-Sabah «scuote un sistema politico malato» che sta bloccando il Kuwait da anni. In particolare, decisioni governative bocciate da parlamentari che accusano alcuni ministri di corruzione, e ministri che denunciano i deputati di mettere i bastoni fra le ruote ai piani di sviluppo del paese. Cosa ha fatto l’emiro? Con un decreto (12 maggio), oltre a confermare il capo del governo, ha sospeso per 4 anni alcuni articoli della Costituzione, ha sciolto il parlamento assumendone alcune competenze ed altre attribuendole al governo. L’emiro ha giustificato la sua decisione affermando: «Non permetterò in alcun modo che la democrazia venga sfruttata per fare a pezzi lo Stato. Il Kuwait è al di sopra di tutti». Posizione non certo comoda né facile, che potrebbe andare in una prospettiva pericolosa, ma che affronta un nodo cruciale: scegliere il bene comune del Paese piuttosto che le posizioni di parte, spesso dettate da una politica poco lungimirante o da visioni ideologiche indisponibili al dialogo.
Sono tematiche democratiche declinate in una visione araba, e d’altronde il soggetto è il Kuwait. Ma sono tematiche che non riguardano certo solo il mondo arabo né solamente il Kuwait. E sono oggi sempre più attuali e comuni, seppure in culture, metodologie, lingue e tradizioni diverse.