Donne e uomini, sesso e genere

Antropologie a confronto. Intervista a Marta Rodriguez, nostra editorialista e collaboratrice di Donna Chiesa Mondo.
(Call me Fred/Unsplash)

Facciamo un po’ di storia sul “genere”…

Il termine “genere” viene introdotto dai sessuologi Money e Hanson nel 1965. Nel 1975 le femministe lo assumono per indicare come la società trasforma il sesso biologico nell’idea di mascolinità e femminilità. Un conto è la sessualità biologica, un conto è la costruzione culturale (genere). Da secoli le femministe cercavano di distinguere ciò che è naturale nella donna dalle interpretazioni (riduttive) che ne danno la società e la cultura. Da quel momento si isa questo termine, ma con significati diversi a seconda della visione di partenza: psicoanalista, marxista, liberale. Si sviluppano anche diverse interpretazioni del rapporto tra sesso e genere: indipendenti per alcune, per altre è più importante il genere, per altre ancora sono due termini fluidi.

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica?

Nel 1995, con la Conferenza Onu sulla famiglia, il termine viene assunto dalle Nazioni unite, ma senza una definizione adeguata. Questo genera una reazione critica della Chiesa che accoglie il termine “genere”, ma fondandolo sull’identità biologico sessuale uomo-donna. Allo stesso tempo, critica il determinismo biologico basato su un unico modello statico di rapporto tra uomo e donna. Nel 2015 Amoris Laetitia chiarisce che sesso e genere si possono distinguere, ma non separare. Così anche il documento Uomo donna del 2019. Non è importante il termine “genere”, quanto l’antropologia che sta sotto.

Parliamo di queste antropologie…

Ce ne sono tante. Si distinguono per come concepiscono la relazione, la differenza sessuale e il corpo. Cominciamo dalla relazione: alcune antropologie puntano sull’autonomia dell’individuo, perché qualsiasi rapporto di dipendenza è considerato a rischio di violenza. Dal punto di vista cristiano, invece, la relazione è costitutiva della persona, l’autonomia è positiva solo se mi rende capace di comunione e di solidarietà. Abbiamo bisogno gli uni degli altri; qui entra in gioco la questione della vulnerabilità e del prendersi cura. Quando si parla di gender, un elemento di analisi è quindi se si concepisce la relazione come qualcosa di pericoloso o invece come necessaria per la mia pienezza e crescita. Da parte femminista c’è stata una giusta critica della “complementarietà uomo-donna” intesa nel senso che siamo incompleti. Invece complementarietà (o reciprocità) nella visione cristiana significa che sia l’uomo che la donna sono completi, ma 1+1 è maggiore di 2. A me non manca nulla, ma a partire da questa consapevolezza costitutiva, so che l’incontro con l’altro fa fiorire la mia personalità, le mie potenzialità, la mia femminilità o mascolinità.

Riguardo la differenza sessuale?

Per alcune teorie di genere questa differenza è secondaria: il dato biologico non ha impatto sull’identità o non ha significato o è indifferente. Siamo uguali, la differenza è solo nelle personalità. Da qui la proposta delle quote, che non nasce dal valorizzare le differenze, ma dal negarle. Per l’antropologia cristiana, invece, la differenza sessuale è costitutiva della persona. Ci sono due modi diversi e complementari di essere immagine e somiglianza di Dio: la differenza sessuale tocca il corpo, ma non è radicata nel corpo, è più profonda. Riguarda il nostro essere persona. Dal soffio di Dio siamo uomini e donne, c’è un’anima sessuata e un corpo sessuato. L’antropologia cristiana concepisce la differenza sessuale come originaria e radicale. Per alcune teorie del gender puoi disporre del tuo corpo, lo puoi plasmare. Per l’antropologia cristiana invece non puoi disporne a tuo piacimento: il corpo è un limite, ma anche lo spazio che rende possibile la libertà.

Quali sono le principali antropologie in campo?

L’antropologia essenzialista pone al centro la natura, in modo rigido, senza tenere conto dell’influsso culturale e considerando fissi i ruoli di uomini e donne. Ha un concetto oggettivo di natura, che mi permette di giudicare cosa è adeguato e cosa no, anche dal punto di vista etico. Pone al centro la differenza, concorda con l’antropologia cristiana nel valorizzare paternità, maternità e famiglia. Aspetto negativo è la concezione riduttiva della differenza sessuale: non tiene conto che nell’essere umano la natura è culturale, e quindi arriva a stereotipi e rigidità. Non si possono separare natura e cultura.

L’Agenda Onu?

Analizza bene l’influsso culturale nella mascolinità e nella femminilità, con un sguardo critico sulle discriminazioni. Però si illude di poter annullare l’impatto della differenza sessuale nell’identità. Vede la differenza come una minaccia all’autonomia: da qui nascono i diritti sessuali e riproduttivi, per garantire la libertà senza dipendenza. Però con questi diritti alla fine passa una violenza nei confronti della donna, perché l’aborto non fa mai bene.

L’antropologia LGBTq?

Nega il valore della differenza sessuale e pone l’accento sull’identità individuale. Ha come punto forte la non discriminazione per le scelte sessuali o nel lavoro. L’aspetto negativo, però, è che punta sulle differenze individuali (diritti e identità particolari), piuttosto che sul fondamento comune che è la dignità umana. Invece che fortificare indebolisce, perché perde di vista il fondamento del diritto di ogni persona.

Cosa consiglia alla Chiesa cattolica?

Di dialogare sulla questione gender e sulla parità di genere. La Chiesa, per motivi storici, si è tirata fuori da questi temi. Non ha dato una “sua” parola, per cui a volte religiosi e religiose parlando di questi temi assumono categorie delle Nazioni Unite, che sono insufficienti e a volte deboli. Dobbiamo evangelizzare questi temi. Se troviamo il coraggio di riempire questi temi di contenuto (critico), il dibattito culturale sarà arricchito. Ma sono fiduciosa perché come Chiesa stiamo prendendo consapevolezza della necessità di uno sguardo pastorale nei confronti delle persone che si identificano con la comunità LGBTq. I ragazzi che vivono questa realtà aumentano e questo ci chiama ad una conversione pastorale, non per cambiare l’antropologia cristiana, ma per accompagnare i ragazzi a scoprire la verità che hanno dentro.

Come dialogare con i giovani?

I giovani abbracciano il discorso LGBTq non perché vivano questa realtà, ma perché nella loro sensibilità postmoderna hanno una solidarietà viscerale con tutto quello che è non discriminazione, tolleranza, lasciare che ciascuno sia se stesso. Tanti giovani abbracciano questo discorso senza rendersi conto che è un’antropologia incompleta. E noi adulti per loro non siamo interlocutori credibili, perché approcciamo il discorso con categorie non adeguate. Dobbiamo creare un linguaggio e un terreno comune per aiutarci reciprocamente. I giovani non parlano di queste tematiche con gli adulti, compresi genitori e catechisti, perché non lo ritengono un dialogo possibile. Eppure, nel mondo, tra i temi che interessano di più i giovani c’è sempre il genere. Credo che questa frattura debba essere colmata. Ma sono fiduciosa, ci vuole un po’ di profezia.

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