6 mila miti e decisi

Al Genfest di Manila, tra show perfetti e testimonianze di eroismi al quotidiano. La generazione di chi sa stare naturalmente sulla scena. La tenace ricerca di un’unità che non è uniformità

Arrivano i 6 mila – un terzo stranieri, due terzi locali −, bardati delle loro bandiere e dei loro zainetti multicolori che contengono il kit del perfetto partecipante: è il primo giorno di Genfest a Manila. Incontro un giovane francese che assomiglia come una goccia d’acqua a un altro giovane che avevo conosciuto tanti anni fa: è suo figlio, lo capisco quando appare anche il padre. Le generazioni si susseguono al Genfest, ed ogni generazione ha il suo specifico. Qual è quella di questi millennial, più o meno tali, cioè i nati nel Nuovo Millennio? Forse quella di saper stare sulla scena, molto più naturalmente di quello che succedeva per le generazioni precedenti: vivono in una civiltà dell’immagine che non è acquisita ma è ormai insita nella loro persona. Così lo show che si dipana sul palco del World Trade Center di Pasay-Manila è di quelli che stupiscono, per la perfezione delle luci, per la dozzina di schermi che creano un impatto visivo suggestivo, per la professionalità nel suonare strumenti difficili già da adolescenti, per il richiamo raccolto dalla sala dopo due sole note di una canzone. «Io credo che per stare bene con gli altri debba star bene anche con me stessa – mi dice una giovane filippina –. Non ha detto Gesù di amare il prossimo come se stesso?». E aggiunge: «È importante apparire bene, perché ciò vuol dire che dentro sto bene, che posso amare l’altro».

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Stupisce altresì – all’adulto che io sono – la facilità nel passare dai riff duri di un brano rock alla drammaticità delle parole di Jean-Paul Muhanuzi del Burundi ed Egide Nduwayezu dal Ruanda, che raccontano un’amicizia nata in ospedale dove era stato ricoverato il primo, ferito gravemente da banditi, a rischio paralisi: Jean-Paul che racconta del perdono concesso a chi lo aveva lasciato in fin di vita in un fosso. O, ancora, la storia di un giovane messicano (Noé Herrera) e uno statunitense (Josef Capacio) giocata attorno, sopra e sotto al muro creato alla frontiera tra i loro due Paesi, una ferita nella convivenza pacifica dell’America intera. O Jaimes Zaya, del Salvador, che decide di rimanere nel suo Paese, diventato pericolosissimo per la delinquenza imperante, dopo aver letto di alcuni amici del Medio Oriente che avevano deciso di rimanere nelle loro patrie in guerra per essere artigiani di pace; lancia così, con alcuni amici, l’“Operazione metro quadro”, cioè impegnarsi a costruire la pace nel proprio piccolo, un successone.

Una riflessione nasce spontanea, osservando quanto accade al World Trade Center. Ma non c’è il rischio che invece di «fare il mondo unito», o perlomeno «un mondo più unito», come il Genfest vorrebbe, si costruisca un mondo dove le bandiere, i simboli religiosi, le musiche e le culture si mescolano in un mix in cui non si riconosce più l’identità dei singoli elementi? Com’è possibile mettere assieme indù e buddhisti, musulmani e cristiani senza incorrere nel rischio dell’appiattimento della propria fede? «Noi cerchiamo quel che unisce e non quel che divide», si sente in effetti dire come un mantra dai partecipanti al Genfest. Paolo viene dalla Corea: «Bisogna capire che noi viviamo già così mescolati, ogni giorno. Ho amici buddhisti, confuciani, anche scintoisti. Per noi è naturale il confronto e il rispetto di quello che l’altro crede».

Nella serata di show dedicata all’Asia (è questo il primo Genfest internazionale che si tiene in territorio asiatico la musica fusion − cioè quella che mette assieme influenze folk locali (le Asie sono plurali) con musiche invece universali come il pop − è quella che unisce realmente i giovani presenti nel muoversi, nel gridare, nel ballare assieme, nell’inventare nuove forme di applauso. Si passa dalle delicatezze d’un flauto taiwanese ai tamburi malesi, alle danze ritmate indonesiane senza soluzione di continuità, partiture così diverse eppure armonizzate dalla musica dai codici comuni e delle immagini che scorrono sugli schermi immaginifiche e avvolgenti, secondo canoni estetici ormai globali. L’Asia è, tra l’altro, continente che ospita le forme religiose più inclusive al mondo – molto più delle tre religioni “del libro”, che sono invece più identitarie −, sulla matrice di quell’induismo che per sua natura tende a inglobare le varie forme religiose in un sanatana dharma unificante. «Sono un po’ spiazzato come libanese – mi dice un amico 22enne –, perché da noi i cristiani stanno con i cristiani, i musulmani coi musulmani, i drusi coi drusi. Qui è tutto molto più mescolato. Mi piace, c’è naturalezza nelle relazioni».

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Ma il rischio va corso, va accettato il fatto che a ogni istante si possa scivolare in un’indefinita fusione di culture, religioni, filosofie di vita. L’alternativa è semplice: accettare passivamente (e responsabilmente) la “fusione” imposta, il polpettone delle tradizioni religiose, il “sincretismo” pratico del consumismo e della cultura standardizzata veicolata dal web. Ci si accorge, allora, che il tentativo pur modesto del Genfest – ma che continua comunque da quasi mezzo secolo − non è tanto quello di privilegiare “quel che unisce” rispetto a “quel che divide”, il che è ovvio, ma di scegliere “quel che unisce” assieme a “quel che distingue”. Non quel che divide, questo no, ma quel che distingue. «Credo che la sfida attuale sia quella di rimanere se stessi e nello stesso tempo avere uno sguardo mondiale», mi dice una francese 19enne. Detto altrimenti: bisogna preservare il locale nel globale, il cosiddetto “glocal”. I nazionalismi risorgenti un po’ dovunque sono appunto una giusta reazione al “troppo globale”, ma col rischio di un “troppo locale” che costruisce muri, che erige barriere culturali, che rifiuta le migrazioni, che alla lunga scatena guerre per salvare la propria identità.

Il Genfest, allora, mi pare una grande opera di pazienza storica: si guarda all’altro diverso da sé e lo si apprezza. Poi si presenta il proprio credo, e lo si porge «con discrezione», come disse Giovanni Paolo II guarda caso in India. E i musulmani restano musulmani ma in modo migliore, i cristiani restano cristiani ma impegnandosi di più… È altresì un’opera “medica”, il Genfest, come d’altronde tutto quello che propongono i Focolari: mettere in evidenza gli anticorpi comuni alla violenza, alla sopraffazione, al sopruso, alla guerra, coltivando nel contempo in vitro quegli enzimi capaci di evitare la diffusione del cancro del consumismo pratico, che distrugge ogni spiritualità.

Torno al flauto di Taiwan, alla giovane donna che lo suona in mezzo ai 6 mila del Genfest senza il supporto, caso unico nella serata, di immagini o di sezioni ritmiche trascinanti, non so come mai la regia abbia voluto far così. Fatto sta che è evidente come la sala faccia fatica ad accogliere frasi musicali difficili: qua e là si cerca di seguire il ritmo con le mani o con i piedi, ma non funziona, non c’è nulla delle battute regolari del rock, come ad esempio aveva fatto un’eccellente band pakistana scatenata pur suonando musiche locali. Si avverte che la sala è combattuta tra la difficoltà ad ascoltare quella nenia, e il desiderio di accettarla, apprezzarla, conoscerla, in qualche modo farla propria. Un barbuto 27enne, viene dalla Colombia, mi dice chiaro e tondo: «Vogliamo l’unità e non l’uniformità, come ha detto papa Francesco nella sua visita a Loppiano». E mi torna in mente un’immagine proposta da un amico, grande esperto di fedi e culture: «Il dialogo interreligioso non è un frullato, è semmai una macedonia in cui si distinguono bene i diversi frutti».

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