Relazioni abusanti, tra cura e controllo
Poniamo di aver bisogno di un passaggio in auto per andare da un luogo a un altro, e che una persona si offra, senza chiederci niente, di portarci a destinazione; gli o le saremo sicuramente grati. Seduti comodi dal lato passeggero, guarderemo fuori dal finestrino godendoci il viaggio.
Ma immaginiamo ora che questa persona cominci a guidare ad alta velocità, in modo sempre più spericolato, con manovre rischiose. Cominceremmo a temere per la nostra incolumità, forse potremmo timidamente protestare. Il conducente, a quel punto, potrebbe sentirsi sorpreso e offeso per questa reazione ai suoi occhi ingrata e ingiusta, ma non cambi il suo stile di guida. Ci sentiremmo a quel punto inibiti e impotenti, in totale dipendenza dei pensieri, comportamenti e umori del guidatore.
Questa è l’efficace metafora proposta dallo psicoanalista argentino Juan Pablo Scarpinelli per descrivere l’esperienza di chi vive una relazione abusante.
Spesso, in una relazione, si incontrano due bisogni complementari, che potremmo chiamare bisogno di cura e bisogno di prendersi cura. Tali bisogni sono e restano armonici fintantoché si compenetrano tra le due parti della coppia, vale a dire: a volte sarò io a prendermi cura di te, a volte lascerò che sia tu a farlo per me.
La psicoanalista statunitense Jessica Benjamin ha studiato per anni le dinamiche del potere e del riconoscimento reciproco nelle relazioni, coniando una coppia concettuale: doers e done to – ovvero “chi agisce” e “chi è soggetto all’azione”. L’idea principale è che, in una relazione sana, le persone alternino i ruoli di “doer” e “done to”, cioè di chi domina e chi è dominato in un dato momento, permettendo una sperimentazione alternata di diversi modelli, stabilendo così un equilibrio e un riconoscimento reciproco.
Nelle relazioni abusanti si instaura invece, quasi sempre da subito, una cristallizzazione asimmetrica dei ruoli, che risponde a due bisogni immobili: quello di proteggere, curare, dominare – e quello di essere amati, protetti, dipendere. Spesso nel primo periodo la figura “dominante” (il doer) ricopre di attenzioni quella accudita (il done to), facendola sentire unica e importante, ma chiedendole di rinunciare progressivamente alla libertà, in cambio della sicurezza.
I ruoli si congelano così in chi decide e chi segue, e questo dà luogo nel tempo a comportamenti sempre più disfunzionali. Il doer si sobbarca la parte più “faticosa”, in termini organizzativi, progettuali, economici… sente che sia suo diritto ricevere dall’altro, in cambio, un’adesione affettiva totale, una dedizione esclusiva alla sua persona: l’altro deve mettere in secondo piano amicizie, legami, interessi. Qualsiasi atto di normale autonomia e autodeterminazione viene interpretato e vissuto con rabbia e incredulità, come una mancanza di riconoscenza e di rispetto, e redarguito pesantemente.
Per chi subisce, scrive Scarpinelli, il risultato è che “qualsiasi cosa si faccia, si corre il rischio di scatenare una situazione di maltrattamento verbale […]. Se è costante la sensazione di allerta per paura che l’altro scopra cosa fai, o non gradisca la tua decisione, è il momento di pensare che si sta abitando uno spazio psicologicamente insicuro”. Impegnata a decifrare incessantemente se stessa e le proprie azioni per prevenire i conflitti, la vittima non si rende conto che questa allerta perpetua è già un indicatore di abuso.
D’altra parte, chi perpetra l’abuso quasi sempre è inconsapevole della profondità del danno causato, e tende a minimizzarlo come un aspetto normale, o dovuto, della relazione. La situazione abusiva non viene così registrata, e una volta conclusosi un episodio violento il perpetratore potrebbe comportarsi come se l’avesse dimenticato, disconfermando la sensazione di disagio della vittima e gettandola in una situazione di ancora maggiore confusione e sconforto.
Nel vocabolario della coppia, in questi casi, parole come “fedeltà”, “rispetto”, “lealtà”, “sincerità”, “trasparenza” perdono il loro significato autentico – un significato di profonda reciprocità e libertà – per divenire strumento di controllo. Questa disconnessione e mancanza di consapevolezza rendono il ciclo dell’abuso particolarmente difficile da rompere, poiché la comunicazione autentica è distorta o completamente assente.
Si tratta di una situazione cristallizzata di doer e done to, in cui entrambi si sentono trattati come oggetti, piuttosto che come soggetti con menti separate. Per Jessica Benjamin, cruciale per superare questa complementarietà cristallizzata è la figura del “terzo”: uno spazio mentale che trascende la dinamica del “chi fa” – “chi subisce”.
Scarpinelli chiude la sua metafora con un invito alla consapevolezza, rivolto soprattutto alle sue lettrici e ai suoi lettori. Ricollocandosi nella metafora dell’auto, suggerisce di spostare l’attenzione dalla destinazione alla natura stessa del viaggio, di cui bisogna godere, non temere.
Spesso, purtroppo, la consapevolezza da sola non basta, e molte volte può non arrivare mai. In questi casi la figura del terzo dev’essere esterna alla coppia: attenta a rispondere a spiragli di consapevolezza, aperta ad accogliere sentimenti di confusione, vergogna e desiderio di libertà.
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