500 anni di ghetti
Il deserto è lo spazio dell’anima. Dune di sabbia e speroni rocciosi, luoghi senza confini, l’immensità che fa tremare e toglie il respiro, le stelle che di notte ti guardano come occhi fissati su di te dal Cielo: l’assenza di vita esteriore condensa la vita all’interno dell’anima, nelle pieghe del cuore. È nel deserto che ben più di tremilacinquecento anni fa, un drappello di uomini e donne guidati dal grande profeta-condottiero balbuziente Mosè fece una esperienza straordinaria: da essa nacque la religione ebraica. Dalla quale poi scaturirà quella cristiana.
Ma il 29 marzo 1516 a Venezia, il popolo di questa religione nata nei grandi spazi, per decreto del doge Leonardo Loredan, fu costretto a vivere in una zona recintata e sorvegliata della città. Il decreto stabiliva che «li giudei debbano abitar unidi» in un’area precedentemente occupata da una fonderia per le bombarde, chiamata in dialetto veneziano getto o geto dato che lì si fondeva il metallo. Gli ebrei, che da secoli avevano imparato il suono duro della parola esilio, impararono presto il triste significato di un’altra: ghetto.
Dopo Venezia, i ghetti furono istituiti in tutte le città italiane, ad eccezione di Pisa e di Livorno. Nacquero ghetti ebraici in diverse città d’Europa. Il ghetto di Venezia era popolato da ebrei di diverse origini, proveniente dall’est Europa e dalla Spagna: impararono a vivere uno appiccicato all’altro, anche se si detestavano e avevano tradizioni diverse, perché lo spazio era stretto, i figli nascevano e le case, che non si potevano espandere nel territorio, salivano rocambolescamente verso l’alto. Le porte del ghetto erano sigillate da una catena, che si chiudeva dall’esterno. Al tramonto tutti dentro, fino a quando i cristiani non riaprivano all’alba.
Per questo motivo molti ebrei veneziani si convertirono al cristianesimo, perché lavoravano in tipografie, facevano straordinari, e quando tornavano dal lavoro il ghetto era chiuso. All’interno del ghetto la vita brulicava in spazi ristretti. Lì c’erano le loro scuole, le loro botteghe, i loro commerci, le loro sinagoghe spesso arrampicate nei piani alti delle case. Lì crescevano i bambini, ci si innamorava, si formavano famiglie, s’arrangiavano i medici e le ostetriche, si studiava, ci si ammalava, si moriva. Una sorta di microcosmo, che se da un lato rendeva dura la vita, dall’altro scolpiva l’identità.
Il ghetto diventò una roccaforte del mistero, per quelli che stavano di fuori, alimentava stereotipi e pregiudizi, che la fantasia ingigantiva e trasformava in vere e proprie malignità. Di cui si servì anche Shakespeare per creare uno dei suoi capolavori, Il Mercante di Venezia (quest’anno per la prima volta rappresentato nel ghetto). La luce del deserto che aveva forgiato la religione ebraica, era diventata la luce fioca di una candela al cui tenue chiarore tanti ebrei stavano chinati sui libri, per cercare di comprendere la volontà di quel Dio che aveva dato loro la legge, la Torah, o per innalzarsi nelle vertiginose interpretazioni mistiche della Kabbalah. Le stelle si riuscivano a vedere malamente dalle strette viuzze del ghetto, ma chi era ricco d’animo capì che poteva ammirarle dentro il proprio cuore. Alcuni vi riuscirono.
Le mura dei ghetti furono poi demolite nel XIX secolo, sulla spinta delle riforme di Napoleone. Quello di Roma fu l’ultimo ghetto a venire abolito, nel 1870. Ma nel corso del ‘900 Hitler riaprì i ghetti, anzi li fece costruire dove non c’erano mai stati, in tanti posti della Polonia e dell’Europa. Tristemente celebre fu il ghetto di Varsavia. Erano ghetti temporanei, strade verso lo sterminio nei lager, dove gli ebrei impararono una terza orribile parole: annientamento, shoah.
Quest’anno Venezia celebra con tante manifestazioni e eventi culturali i 500 anni del ghetto. E dato che questo termine è uscito dal mondo ebraico per indicare aree in ogni parte del mondo dove ci sono assembramenti disperati di persone, concentrazioni di povertà e di reclusione sociale, è bene cogliere quest’occasione per meditare. E per fare ogni sforo in modo che questo termine venga presto gettato nel dimenticatoio delle parole inutilizzate.