50 anni fa su Città Nuova
Su Città Nuova n. 6 del 1962 appariva, a cura di Fabrizio Schneider, un’intervista a Joseph Stasko, ex deputato cattolico slovacco fuggito rocambolescamente dalla Cecoslovacchia comunista. L’intervistato era prodigo di notizie di prima mano su ciò che avveniva in quella nazione e sulla situazione della Chiesa. Riportiamo di seguito la parte iniziale del lungo articolo.
Ne parlarono tutti a quell'epoca. Era ferragosto dell'anno scorso. I giornali di tutto il mondo avevano pubblicato la notizia con una certa evidenza: Joseph Stasko, ex deputato cattolico, era fuggito dalla Cecoslovacchia in Occidente, a bordo di un autocarro blindato, munito di una sega-rostro che aveva abbattuto i reticolati della cortina di ferro. Fu un atto di coraggio, quello, che Stasko e gli altri sei della spettacolare avventura avevano coscientemente previsto e affrontato pur di concludere per sempre un doloroso periodo della loro vita, che durava da quattordici anni, da quando cioè i comunisti si erano impossessati a Praga del potere. In quell'epoca l'ex deputato cattolico, per il semplice fatto d'esser tale e di aver studiato alla Sorbonne a Parigi, era stato condannato a sei anni di reclusione.
In questi giorni Stasko è a Roma: lo abbiamo incontrato e ci ha intrattenuti a lungo sulla sua esperienza e sulla sua avventurosa fuga. È giovane, energico, ricco di straordinario dinamismo. Arrivato in ritardo all'appuntamento, ci ha chiesto scusa, mostrandoci le mani: era stato dal medico perché le sue palme erano ancora doloranti, danneggiate e corrose da un tossico che troppe volte, fino al giorno precedente alla fuga, aveva dovuto toccare, lavorando da montatore di frigoriferi, a Zilina in Slovacchia. Era stato, quest'ultimo, il periodo meno pesante della sua vita sotto regime comunista, nonostante le difficoltà di adattarsi ad un tale lavoro per chi, come lui, pur essendo di origini piuttosto umili (suo padre era un affittuario agricolo), aveva passato i propri giorni fra libri e aule scolastiche.
L'esperienza di Zilina seguiva a quella in un istituto per la meccanizzazione del lavoro forestale, ad un lavoro in qualità di manovale in una segheria, a tre anni di lavori forzati in una miniera di uranio in Boemia, a tre anni di prigione e a un processo a porte chiuse, nel corso del quale non era emersa alcuna prova concreta a suo carico, ma che egualmente si era concluso con una condanna per attentato alla sicurezza dello Stato, che gli era costata appunto il carcere e i lavori forzati.