I 50 anni del capolavoro di Sergio Leone
Gli americani, un po’ per gelosia e un po’ per via dei soliti stereotipi che appiccicano agli italiani, i nostri western degli anni ’60 li chiamavano spaghetti western. L’etichetta, riduttiva e poco elegante, è addirittura disgustosa e quasi blasfema se appioppata a un indiscusso capolavoro del genere, Il buono, il brutto, il cattivo, diretto da Sergio Leone e prodotto da Alberto Grimaldi nel 1966. Già, il ‘66, per cui quest’anno, 2016 (ancora per poco), il terzo film di Leone ha compiuto 50 anni, acquisendo di diritto il titolo e il valore di classico cinematografico, che però gli erano attribuiti da spettatori e cinefili di mezzo mondo già da trent’anni e passa.
Realizzato dopo Per un pugno di dollari (1964) e Per qualche dollaro in più (1965), The Good, the Bad and the Ugly, come s’intitolò negli Usa (ma il prodotto era italianissimo, distribuito dalla Pea), fu subito un successone in tutto il mondo; nel ’66 (allora uscivano film a migliaia) arrivò terzo dietro alla Bibbia di John Huston e al Dottor Zivago di David Lean. Un’accoglienza trionfale durata negli anni, anzinei decenni, e che si rinnova continuamente sugli schermi televisivi, i Dvd e in tutte le fruizioni offerte dalla tecnologia odierna. Perciò il film leoniano che chiude la gloriosa Trilogia del dollaro si può considerare a pieno titolo patrimonio artistico-culturale di tutte le generazioni, dai ragazzi del ’66 (per dirla con Venditti) a quelli di oggi e di domani. Basti pensare che a partire dal ’70 Il buono, il brutto e il cattivo è stato restaurato già almeno 4 volte dalla Cineteca Nazionale, e nel 2014 con la collaborazione della MGM e della Film Foundation di Martin Scorsese, devoto cultore del cinema italiano. Per non parlare delle varie classifiche ed elenchi dei film migliori stilati e consultati da pubblico ed esperti in America e non solo. Nella IMDb Top 250 movies il terzo film di Leone è attualmente al 9° posto, il più alto mai raggiunto da un western e da un film non statunitense. La pellicola è presente fra i 100 migliori film della storia del cinema individuati dai critici di Time e tra i Migliori 1000 film mai fatti secondo il New York Times. Quanto ai gusti notoriamente “forti” di un cineasta italoamericano di fama mondiale come Quentin Tarantino,
che come si sa adora i classici cinematografici italiani, giudica Il buono, il brutto, il cattivo come il miglior film nella storia della Settima Arte. Pure sul nostro sito il capolavoro di Sergio Leone meritava di essere ricordato. Ma lo spazio pure in digitale è tiranno, per cui cercheremo di rispondere subito e nel modo più breve-chiaro possibile alle domande centrali che ha in testa ogni spettatore-lettore di cinema. Perché Il buono, il brutto, il cattivo ha avuto tanto successo? Perché è diventato un film immortale? Quali pregi artistici, filmici, spettacolari lo hanno reso gradito a intere generazioni dal 1966 a oggi? Bè, anzitutto c’è da dire che i ’60 erano ancora un’epoca splendida per il cinema mondiale e italiano, e perciò un grande film di quegli anni (che so, Morte a Venezia o Love story o Il cane di paglia) aveva ben più chances rispetto a oggi di diventare un evergreen, di quelli che ora si girano tutti i canali tv e fanno audience lusinghiere.
Seconda ragione della grandezza de Il buono, il brutto, il cattivo, neanche a dirlo, è il regista, Sergio Leone, grandissimo lui per primo in chilogrammi e idee, in fantasia e coraggio, in anticonformismo e rigore professionale, in esperienza (figlio d’arte e nato negli studios di via Tuscolana) e conoscenza artigianale di prima mano del cinema in tutti i suoi aspetti, dettagli, segreti. Inoltre Leone veniva già dal successo mondiale di Per un pugno di dollari (1964) e Per qualche dollaro in più (1965); nel terzo film della Trilogia del dollaro fu quindi logico e naturale per lui sviluppare al massimo tutti gli spunti, le scelte e le trovate delle prime due pellicole: il movimento, i grandi spazi del west (leggi Spagna!), i personaggi forti e quasi omerici, l’ironia, i dialoghi intessuti per lo più di aforismi, le sparatorie come assoli musicali o sinfonie in crescendo sullo sfondo dei cactus, delle scabre colline “ispano-californiane” o dei lignei colorati villaggi di frontiera.
Moravia sull’Espresso bollò come bovarysta il western italiano e perfino quello leoniano, fatto secondo lui da ragazzini (anche se 40enni) ancora eccitati davanti ai cow boys e ai bounty killers americani degli anni ’40 e ’50. Ora, ciò può valere per i film minori di tale genere ma non per Leone, per il cui cinema (specie per il terzo western) si può parlare non di bovarysmo, come faceva con sufficienza Moravia, cioè di immaturità, infantilismo e lavoro sul mito del mito, cioè sul cinema western americano e non sulla realtà scenico-storica che Hollywood, sempre infantilmente secondo Moravia, aveva rappresentato. Ma questi secondo me sono insulti gratuiti se fatti a Leone, che non è madame Bovary ma piuttosto, come Steven Spielberg, un bimbo, un ragazzino che sogna, gioca e viaggia con la fantasia nel tempo e nello spazio restando chiuso in una sala cinematografica di periferia. E una volta grande, dietro la macchina da presa (non chiamatela mai telecamera, ragazzi, per carità!!), dipinge artisticamente il mondo che non ha mai smesso di amare e sognare dalla sua infanzia, dando al western una dimensione non più stelle e strisce, ottocentesca, solo avventurosa o ingenuamente storica, ma trasformandolo in mondo umano, poetico e universale, rappresentato con arte e con passione. E questo non è bovarysmo, cioè l’anticamera della morte. Nel western leoniano, e in Il buono, il brutto, il cattivo soprattutto, la vitalità è invece inesauribile.
Il terzo e il quarto fattore per la riuscita del film furono il budget americano e il talento dei tre protagonisti. Dopo i primi due successi della Trilogia western di Leone si presentarono i dirigenti della United Artists, pronti a produrre il terzo progetto di Leone. Che ancora non c’era. Luciano Vincenzoni, lo sceneggiatore dei primi due film, parlò vagamente di una storia di tre manigoldi in cerca di un tesoro sullo sfondo della guerra di secessione. Agli americani bastò. “Andiamo al Grand Hotel”, dissero a Leone e a Vincenzoni (erano a Roma), “e firmiamo il contratto”. Così la produzione fruì di 1 milione e 300 mila dollari (nel 1966, si ricordi!) per fare il meglio del meglio, e Leone si rimboccò le maniche. Lo sfondo e le scene della Guerra Civile americana (che quelle risorse permisero di realizzare) sono terribili, servono a mostrare l’assurdità della guerra, disse qualcuno e sottoscrisse Leone. Niente da dire, è chiaro che morti, feriti e sangue non possono non avere tale scopo ed effetto. Ma il cinema di Leone (pure se lui aveva il “vezzo” di dirsi anarchico) non è mai ideologico, politico, engagé: dire ciò significa sminuirlo. Pure su questo punto quello di Leone è sempre sogno (o incubo, se si vuole) e fantasia, epopea omerica che non condanna moralisticamente ma riproduce nel segno dell’arte. Concludiamo con gli attori e i personaggi: e i doppiatori, eccezionali. Clint Eastwood è il “buono” (doppiato divinamente da Enrico Maria Salerno), cavaliere senza nome, mezzo avventuriero e mezzo lestofante. La maschera severa e impenetrabile di Lee Van Cleef (con la voce del re dei doppiatori italiani dei ’40-’70, Emilio Cingoli) per Sentenza, uno spietato pieno di onore e di tristezza. Ma il top della recitazione e dei personaggi si tocca secondo me con Tuco, il picaro senza arte né parte, irresistibilmente simpatico, un vulcano senza requie, ma figlio di buona donna quant’altri mai. A Edy Wallach che lo ha interpretato, e a Carletto Romano, che gli ha dato la voce, si deve a nostro avviso il contributo maggiore al successo del film in Italia. Fra l’altro i tre, o i sei, artisti espressero da par loro l’obiettivo forse principale di Leone, adombrato già nel titolo: demistificare gli aggettivi. Perché non ci sono mai buoni o cattivi, furbi o imbranati, geni o cretini che non diventino, se capita o conviene, il loro perfetto contrario.