A 50 anni dalla “Populorum progressio”
È giusto ricordare questa enciclica di Paolo VI. Segna un passaggio che viene maturato dentro il corpo e l’anima del Concilio. Il Concilio si conclude l’8 dicembre 1965, ma la sua ispirazione continua ad alimentare la vita della Chiesa e della società, alla fine dei convulsi anni 60. Paolo VI diviene papa nel 1963, tra la prima e la seconda sessione conciliare. E subito introduce la tradizione dei viaggi apostolici: prima in Palestina, a Betlemme Nazaret e Gerusalemme. Lì avviene l’incontro con il patriarca della chiesa di oriente Atenagoras. Poi ci saranno i viaggi a Bombay, in India, e alle Nazioni Unite, a New York
Il primo viaggio avviene nella Terra santa, per porre l’ecumenismo sotto il segno della parola di Gesù: è un ponte verso le chiese, in una terra attraversata da molti travagli. Già nel radiomessaggio a un mese dall’apertura del concilio, papa Giovanni scrive: davanti ai popoli sottosviluppati, la Chiesa è e vuole essere la Chiesa di tutti e in particolare la Chiesa dei poveri. Qui Roncalli pone una corrispondenza tra i popoli sottosviluppati e la loro povertà con la Chiesa, che costitutivamente appartiene ai poveri che la rendono visibile nel loro seguire il mistero di Gesù, messia dei poveri.
A suo modo l’enciclica di Paolo VI vuole irrobustire questa prospettiva e dare una risposta al mondo del sottosviluppo, che preme in modo forte, per corrispondere ad un bisogno del vangelo, che chiede giustizia per il sud del mondo. Soprattutto l’episcopato latino americano pone la questione della partecipazione dei cristiani latinoamericani ai processi e ai movimenti rivoluzionari. L’enciclica vuole rispondere ad un processo già iniziato in Concilio con la Gaudium et spes, la costituzione pastorale che si pone come ultimo documento del Concilio.
La questione sociale diventa la questione mondiale, anche se porta alcuni elementi di contraddizione. In un certo senso il suo occidentalismo. Lo svilupppo diventa lo strumento per arrivare all’occidente. I movimenti di liberazione e i cristiani latino americani si trovano spesso ad operare dentro regimi autoritari di tradizione cristiana, entrando come in un conflitto. Basti ricordare la dittatura brasiliana di quegli anni. Al tempo stesso cresce la partecipazione dei cristiani ai movimenti sociali e rivoluzionari.
Già la conferenza di Ginevra di “Chiesa e società” (che raccoglie soprattutto cristiani di tradizione riformata) cosi scrive: «L’uso da parte dei cristiani di metodi rivoluzionari, con i quali si intende il rovesciamento violento di un ordine politico esistente, non può essere escluso a priori. In questi casi, infatti, può ben darsi che l’uso di metodi violenti sia l’unico mezzo cui possono ricorrere coloro che desiderano evitare il perpetuarsi di una grande violenza nascosta». Esempio singolare di tutto questo è un prete colombiano Camilo Torres, che in nome del vangelo uccide e viene ucciso.
Paolo VI al n.31 della Populorum progressio afferma: «E tuttavia lo sappiamo, l’insurrezione rivoluzionaria – salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attentasse ai diritti fondamentali delle persone e nuocesse in modo pericoloso al bene comune de paese – è fonte di nuove ingiustizie, produce nuovi squilibri e provoca nuove rovine».
Questo inciso nasce all’interno di una teologia della guerra giusta che fatica a morire e giustifica sia la posizione di Paolo VI che quella dei movimenti rivoluzionari. Il testo viene assunto da Medellin e poi rimosso e non più citato da Puebla. I vescovi ne colgono la fragilità sul piano storico e delle urgenze del vangelo. Solo la coerenza interna della teologia della guerra può arrivare a questa conclusione. Lo stesso titolo dell’enciclica Populorum progressio mostra un debito pesante alla dottrina sociale. Si legge nella benedizione conclusiva «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (in latino: hodie nemo dubitat progressionem idem valere ac pacem).
Questa, insieme alla formula alle Nazioni Unite «Noi Chiesa esperta in umanità», riduce tutto l’impianto ad una divulgazione di una dottrina sociale che può fare a meno del vangelo, quasi che il vangelo potesse essere sostituito dal vangelo. Questo imprigiona il vangelo e apre strade pericolosissime che rendono prigionieri di questa cultura della guerra che fatica a morire.
Nessuno oggi pensa che le urgenze del vangelo e della sua giustizia domandino comportamenti e parole di questo tipo. Abbiamo conosciuto troppo bene la guerra per pensare che possa essere affidata a una teologia vecchia e stanca. Rimane una nuova consapevolezza: la questione sociale è divenuta questione mondiale. Questa è una grande prospettiva evangelica e storica, che chiama le Chiese e i cristiani a combattere le diseguaglianze e a seminare il seme buono della Chiesa dei poveri. In questi cinquanta anni abbiamo imparato non a cercare dottrini e principi, ma ad incontrare i poveri, uno ad uno. Non è il vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio.