Tunisia, storie da un’ex democrazia araba
Da novembre 2023 nessuno parla più del famoso Memorandum che sarebbe stato sottoscritto a giugno tra Europa e Tunisia, con visita a Tunisi della premier italiana Meloni, in compagnia addirittura di Ursula von der Leyen e dall’allora premier olandese Mark Rutte, che avevano incontrato il presidente tunisino Kais Saied.
Il gesto di Saied in ottobre aveva gelato l’enfasi: il governo tunisino ha restituito alla Commissione Europea 60 milioni di euro che erano stati versati alla Tunisia alcuni giorni prima. I 60 milioni versati e restituiti avrebbero dovuto rappresentare, secondo la Commissione Europea, solo la prima tranche di un aiuto per centinaia di milioni di euro (e di una parolina al Fmi per un ennesimo prestito), in cambio di un incremento, da parte di Tunisi, delle azioni per bloccare le partenze dei migranti subsahariani diretti in Europa.
La vicenda si è trascinata a lungo, tanto che a Bruxelles qualche personaggio della Commissione Europea continua ancora oggi a sostenere che il Memorandum resta valido, nonostante la scomoda e plateale restituzione dei 60 milioni.
Non entro nei racconti agghiaccianti dei migranti che sarebbero stati abbandonati a morire nel deserto tra Tunisia e Libia. Quello che a Kais Saied non sembra essere piaciuto è che in cambio di (relativamente) quattro soldi (soprattutto rispetto al deficit tunisino), la Tunisia avrebbe dovuto trasformarsi nel guardiano e poliziotto dell’Europa per bloccare i migranti sub-sahariani e tunisini, oltre ai famigerati scafisti. Un po’ come Erdogan in Turchia, che in qualche modo “offre” (probabilmente in cambio di qualche miliardo di euro) un servizio analogo per profughi e migranti provenienti dal Medioriente e dall’Asia. E molto più in piccolo il recente accordo Italia-Albania per decentralizzare l’esame delle richieste di asilo.
Questioni complesse e di difficile comprensione. Che lasciano però l’amaro in bocca. Sembra che il sospetto che i fenomeni migratori mediterranei non siano emergenze non sia ancora pervenuto ad un certo modo di fare politica in Italia e in Europa. Dopo 2,5 milioni di profughi diretti in Europa da sud (Africa) e da Est (Medioriente e Asia) fra il 2015 e il 2023 e 26 mila annegati (nello stesso periodo), qualche nuovo approccio, non so quale, ma sarebbe meglio farselo venire.
Per tornare alla Tunisia, in questi giorni il titolare della presidenza tunisina ha ancora una volta fornito spunti per valutare i metodi con i quali affronta i non pochi problemi del suo Paese. Sabato 24 febbraio scorso, a Tunisi, un tribunale ha condannato a sei mesi di carcere Jawhar Ben Mbarek, tra i fondatori di una formazione politica di sinistra e principale partito di opposizione, il Fronte di salvezza nazionale (Fsn). Ben Mbarek era peraltro già in carcere per “complotto contro la sicurezza dello Stato”. La motivazione della sentenza della settimana scorsa (fondata su un Decreto Legge emanato da Kais Saied) parla di critiche alle elezioni legislative tunisine di gennaio 2023, che il leader del Fsn avrebbe definito un «ridicolo colpo di stato, una farsa, piuttosto che un appuntamento politico».
In sostanza Ben Mbarek ha criticato un’elezione in cui ha votato meno del 12 per cento degli aventi diritto con regole elettorali stravolte, e in cui, per dirla in poche parole, non erano ammessi né partiti né coalizioni, solo candidature personali (ovviamente se approvate). E per di più con l’esclusione dalle candidature di chi, nell’anno precedente all’elezione, fosse stato membro del governo o capo di gabinetto. Questo senza entrare nei fatti precedenti: lo scioglimento del Parlamento per decreto presidenziale e l’approvazione di una Costituzione fortemente presidenzialista attraverso un referendum “costituzionale” (luglio 2022) al quale ha partecipato il 27 per cento dell’elettorato, mentre il restante 73 per cento circa degli aventi diritto non si è recato alle urne per protesta. Queste sommarie precisazioni giusto per inquadrare la situazione e soprattutto il personaggio chiave: Kais Saied, il presidente a suo tempo eletto ma che ormai si è auto-proclamato una sorta di salvatore, nella buona e nella cattiva sorte, dello Stato.
Per buona misura, sempre a Tunisi un paio di giorni prima, era stato condannato in contumacia a otto anni di carcere (ma aveva già collezionato in precedenza un’altra condanna a 4 anni) Moncef Marzouki, ex presidente (2011-2014) della repubblica tunisina, il primo dopo la “primavera araba”, che da anni vive in esilio in Francia, ed è uno strenuo oppositore di Saied. Marzouki, leader della formazione politica socialdemocratica al-Irada, aveva inaugurato nel 2011 una storica apertura verso Ennahdha, espressione dell’islam politico ispirato ai Fratelli musulmani. Rached Ghannouchi, leader di Ennhadha (che è stato il partito di maggioranza relativa prima dell’avvento di Saied) ed ex presidente del Parlamento tunisino, è in carcere da aprile 2023.
E la repressione da parte del governo tunisino non si ferma da più di 2 anni, con attacchi e arresti di politici, giudici, sindacalisti e giornalisti.
Un quadro, insomma, che definire fosco e caotico potrebbe apparire eufemistico, e non tanto per deplorare il venir meno di un’interessante esperienza di democrazia in stile arabo, che pur tra mille contraddizioni aveva acceso non poche speranze in Tunisia e in molti paesi arabi e non arabi; ma anche per porre un grosso interrogativo sull’opportunità e validità di costose iniziative come quella italo-europea di pochi mesi fa nei confronti del governo di Kais Saied. Iniziativa che sembra naufragata. Ma che altro fare, allora, per affrontare la questione migranti, che pure non è venuta meno? Ci vuole uno sguardo nuovo.
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