Prete in comunità

L’importanza di vivere in una “famiglia allargata”, sia per i laici che per i consacrati.

Sono prete missionario. Fin dall’inizio della mia missione ho sempre ricercato riposte effettive e affettive per dare più senso alla mia chiamata. Non è mai stato facile, soprattutto esser capito tra i confratelli. Ora mi sono deciso a fare una riflessione scritta da condividere con i più.

Subito mi viene in mente il passaggio evangelico (Mc 3,20-35) dove Gesù mostra quale è la vera famiglia, dove è l’asse basilare della società. E anche i preti devono rientrare in questo asse portante per vivere la loro vocazione.

Per cui la vera famiglia è una prova d’amore condivisa con tutti i componenti. Non una semplice famiglia come noi siamo abituati a vedere, ma una famiglia allargata ossia una comunità. Il nostro Maestro Gesù, «guardando quelli che gli stavano intorno, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli. Chiunque fa la volontà di Dio è mio fratello, mia sorella e mia madre”».

Guardate quanto è facile parlare di dolore, di tristezza, di abbandono e di disperazione, ma quanto è difficile condividerli, e soprattutto condividerli con le persone perché si sentano bene, nonostante le prove crudeli della vita. La comunità-famiglia potrebbe aiutarci in questo senso?

La parola di Dio è piuttosto pesante, perché dice che fare la volontà di Dio per noi è al di sopra di tutto, anche delle persone più care e persino di nostra madre. Ci si rende quindi conto di quanto coraggio ci voglia per accogliere Dio nella propria vita. Altrimenti potremmo incorrere in questo pericolo: «In verità vi dico che ai figli degli uomini sono perdonati tutti i peccati, anche le bestemmie; ma chi bestemmia contro lo Spirito Santo non sarà mai perdonato, sarà colpevole di un peccato eterno».

A chi sperimenta questo Amore di Dio, «tutto è possibile», dice l’apostolo Paolo. Nulla può ostacolare il compimento della volontà di Dio. Una vita piena di amore di Dio diventa coraggiosa e impavida nel donarsi. Il Vangelo scritto da Marco è il più antico e racconta che la famiglia di Gesù andò da lui perché era preoccupata di proteggerlo dalle possibili minacce.

Che cosa significa? Nell’antico Israele, la comunità, cioè la grande famiglia, era il pilastro della vita sociale. Attraverso la famiglia si garantiva la proprietà della terra, si difendevano le identità e le tradizioni delle persone. In questo modo si realizzava l’amore per Dio e per il prossimo. Pertanto, difendere la famiglia equivaleva a difendere l’alleanza di Dio con il suo popolo.

Al tempo di Gesù, la famiglia era indebolita dal sistema dei nuovi governi che imponevano molte tasse, aumentavano i debiti, diffondevano una mentalità individualista e dovevano soccombere l’invasione del potente Impero Romano. A proposito, vale la pena aggiungere che tutto ciò non è diverso dai nostri tempi. Le varie ideologie, sempre più despote, infiacchiscono la famiglia e soprattutto la famiglia comunità. Non ci sono dubbi nell’affermare che la famiglia è in crisi e con molta difficoltà a reggersi.

Quindi di fronte a una realtà con tali problemi e sofferenze, la famiglia si è chiusa in sé stessa, nel tentativo di autodifesa. Ha perso la forza che aveva un tempo di essere l’anima della società, la garanzia di essere un sostegno per tutti. Con gli infiniti problemi che la famiglia ha dovuto e deve affrontare, si è impedito alle persone di riunirsi come comunità.

Oggi, per esempio, abbiamo costruito tante case ma poche famiglie e famiglie-comunità. Il risultato: sono aumentati gli ostacoli alla manifestazione del Regno di Dio attraverso la condivisione comunitaria delle persone. Le persone si sono chiuse in sé stesse, nelle loro piccole famiglie, dove ancora sussistono, abbandonando la comunità più ampia. Anche la vocazione religiosa e sacerdotale entra in questo processo. Non è esenta da questa condizione sociale e religiosa.

Insisto: oggi abbiamo qualcosa di simile alla famiglia di allora? Ecco perché, dice il Vangelo, quando la sua famiglia cercò di impossessarsi di lui, Gesù reagì dicendo chi era la sua famiglia, che andava ben oltre sua madre e i suoi parenti. «Chiunque fa la volontà di Dio è mia madre, mio fratello e mia sorella». In questo modo, ha creato la comunità, aprendo nuovamente le famiglie ad accogliere tutti, soprattutto i più bisognosi; dimostrando così una presenza effettiva del Regno di Dio. Ripristinando la famiglia e vera comunità rivela l’incarnazione dell’amore di Dio e del prossimo.

In questo contesto possiamo contemplare pure l’essere sacerdote. Il sacerdote non può vivere per conto suo, dimenticandosi che è al servizio degli altri ed inserito in quella famiglia allargata che è la comunità. Non possiamo noi preti vivere da soli, separandoci dalla famiglia allargata. Non siamo extraterrestri. La nostra vocazione passa per questa condivisione comunitaria ed è in questa convivenza che si dà senso all’essere prete. Un prete che vive in comunità dove tutti si aiutano e si sostengono, nonostante le molteplici difficoltà.

Per esempio: quanti pettegolezzi si aggirano intorno alla figura del prete! Se il prete vivesse la comunità-famiglia tutto ciò non potrebbe essere eliminato? E quello di cui si parla molto in questi tempi, per esempio la pedofilia, non potrebbe essere evitato se noi preti vivessimo in famiglia-comunità?

Si dovrebbe avere il coraggio di lasciarsi condurre dallo Spirito Santo per non continuare a portare avanti conduzioni di vita solamente del “passato”, ma aprirsi al nuovo: vivere la vocazione sacerdotale insieme alla famiglia-comunità.

In conclusione, vi chiedo: i sacerdoti vivono in famiglie allargate o vivono in modo isolato, lontano dalle comunità? Le famiglie che conoscete intorno a voi sono chiuse in sé stesse o sono attente alla comunione con gli altri, con i preti?

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