La banalità del male

L’indifferenza all’orrore di Auschwitz nel film di Jonathan Glazer La zona d’interesse, candidato agli Oscar. Duro, vero. Da vedere.
Da destra: l'attrice tedesca Sandra Hueller, il regisa brtannico Jonathan Glazer e l'attore tedesco Christian Friedel al festival del cinema di Berlino per "La zona d'interesse" a dicembre 2023. Foto Ansa/EPA/CLEMENS BILAN

Ci sono zone di solo colore – grigio o rosso fuoco – in alcuni momenti di questa storia vera. Quella della famiglia di Rudolph Hoss che vive una vita tranquilla nella bella casa, con giardino, orto, piscina, servitori accanto ai forni crematori, da cui è separata da un muro spinato. La moglie è vispa, educa i figli secondo i dettami del nazionalsocialismo; il marito è uno stimato, efficiente direttore del campo, sembrano innamorati. La vita scorre serena, vengono le amiche di lei, si parla con indifferenza degli ebrei, i bambini giocano con i denti che vengono dal campo come una cosa normale, vanno al fiume col padre, cavalcano, mangiano dolci.

Una famiglia unita, solare, dove la natura splende come i fiori che il regista ad un certo punto ingigantisce come immagini in contrasto con le urla e gli spari che vengono dal campo, aggredendoci con il loro contrasto drammatico. La morte è accanto ma nessuno se ne accorge, è una cosa normale, banale, la coscienza è morta. Rudolph viene promosso sovrintendente di tutti i campi, organizza nuovi forni crematori e la venuta di migliaia di ebrei ungheresi come nulla fosse: è un lavoratore coscienzioso. Durante una festa bellissima pensa che il soffitto della sala è troppo alto se si dovessero gasare i presenti, pensa al suo lavoro di sterminatore con assoluta glacialità. È infatti la glacialità del male che rende ogni persona, gli adulti almeno, delle statue di ghiaccio, solitarie in verità, come degli automi del male.

Un silenzio greve, con scarsissima musica, attraversa il film e parla appunto di orrore tacito, nel contrasto con una felicità esibita, con la vita dei bambini, freschi, innocenti, ancora per poco, tuttavia. Tutto fila liscio, ma la nonna è l’unica ad accorgersi di ciò che succede.

Il regista, che ha diretto il film dopo un viaggio ad Auschwitz, non vuole però solo raccontare di questo campo, ma solleva l’opera a denuncia del male che tuttora grava su zone del mondo dove le persone vengono date in balia della morte. Nella glacialità perfetta delle scene, nel silenzio pesante, nella solitudine, nei rapporti superficiali sta la presenza della negritudine umana, la morte del sentimento. È un racconto astratto, minimalista di una zona d’interesse che dà per scontata la negazione del bene, dell’umanità, a cui i figli vengono educati.

Recitato alla grande, ripreso con una fotografia dura e poetica al contempo, tra racconti favolistici per bambini, feste e grida, assenza-presenza degli internati, il film è un dramma di morte e di vita alto e commosso, spietato ma autentico. Profondamente commosso. Da non perdere.

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