Il fascino di Alphonse Mucha a Firenze
“Donna, il tuo mistero è grande!”, si afferma nell’età della Belle Époque. C’erano le donne fatali di Boldini – e in musica Salomè di Richard Strauss e Tosca di Puccini -. C’erano quelle demoniache di Munch, altezzose di Klimt o sensuali di Schiele. E ci sono le bellezze lineari, botticelliane di Mucha, il pittore boemo diventato celebre a Parigi, amico di Gauguin, viaggiatore instancabile, pure negli States. Le sue donne sono immagini di armonia, perché l’artista ama un mondo dove non ci sia nulla di stonato, di rozzo, di eccessivo.
Le sue donne seducono certo, ma con grazia, mediante un disegno sottile e preciso, hanno lunghissimi capelli ondeggianti, vesti decorate e ampie, vivono tra i fiori. Paiono talora quasi bizantineggianti, se non fosse che non sono astratte, ma reali. Ci guardano, sempre, non hanno paura di mostrarsi, sono vicinissime eppure sfuggenti, sono eternamente giovani e belle, dal volto regolare, gli occhi vivi, tra gigli e rose e tra una luce chiara, trasparente, la primavera sempre in fiore.
Mucha a Parigi divenne amico della grande attrice Sarah Bernhardt. Nel 1898 realizza il manifesto per la sua Medea: alta, diritta, un pugnale in mano. È una Nike di fine secolo tratteggiata da un disegno che parla da solo. Non è un ritratto fisico dell’attrice, ma dell’interprete, della sua anima, in questo caso del suo furore.
Oppure, ancora il manifesto di Sarah ne La Samaritaine di Edmond Rostand, 1897: fanciulla dai capelli biondi lunghissimi, abiti superdecorati, l’indice che tocca l’anfora presso il pozzo. Pochi segni decisi e Sarah si fa presente.
Negli anni in cui gli Affiches vedevano un autore geniale e nervoso come Toulouse-Lautrec, Mucha – anche lui a Parigi – non lo imita, non prende da lui il gusto per il segno aguzzo, ma si abbandona alla linea fluente, crea una bellezza di porcellana che chiama, attira e poi fugge. Ma resta impressa nella memoria come epifania di un mondo perfetto, prezioso e a suo modo pudico.
Mucha non resta sempre a Parigi. Viaggia, in Italia anche, poi in America. Qui lavora a ritratti, manifesti, pubblicità, decora le pareti di grandi alberghi. È un’arte raffinata, dialogante, luminosamente “floreale”. Torna a Praga, dipinge anche la vetrata per la cappella arcivescovile con scene sacre di luce diffusa, di forme composte. La luce infatti è il fondamento della sua visione della bellezza, essa inonda creature, fiori, oggetti, qualsiasi cosa egli disegni. Sino alla morte nel 1939 in una città invasa dai nazisti che lo detestano e lo interrogano quando già è malato.
Rimane la sua opera, l’incantesimo di un’atmosfera lussuosa e semplice, della sua luce nitida, capace con il segno di far nascere la bellezza, soprattutto come donna della “stagione dei fiori”, come si canta nella pucciniana Bohème. Visione la sua arte della musica come armonia di forme e di cose, di tutto ciò che esiste e che la luce crea e diffonde.
Firenze, Museo degli Innocenti. Fino al 7.4.2024.
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