Modi, Primo Ministro, guru e santone per un’India hindu

La celebrazione del settantacinquesimo anniversario della Repubblica Indiana non è avvenuta quest’anno a Delhi ma nella cittadina di Ayodhya, nello Stato dell’Uttar Pradesh, diventata così famosa in tutto il mondo. Perché ad Ayodhya è stato inaugurato e consacrato dal presidente Modi il nuovo tempio di Ram, una delle divinità più amate dagli hindu
ANSA EPA/INDIA

Il 26 gennaio scorso l’India ha celebrato il settantacinquesimo anniversario della repubblica. Un evento che a Nuova Delhi rappresenta, insieme al 15 agosto – data dell’Indipendenza del Paese dal dominio inglese – un momento di orgoglio nazionale.

Nella nebbia che normalmente avvolge la capitale indiana, in questi giorni su Janpath road, dal Rashtrapati Bhavan, residenza del Presidente della Repubblica, e dal Palazzo del Parlamento indiano la parata si muove verso il monumento al Milite Ignoto, presentando i vari Stati della confederazione, oltre ad armamenti, truppe ed altro, che suscitano il senso di nazione da sempre fortemente avvertito dagli indiani. Il governo di Narendra Modi, sempre più saldamente al potere dal 2014, in questi ultimi anni ha sempre puntato molto sui sentimenti degli indiani in queste due occasioni.

A parte le due parate di gennaio ed agosto, sono i discorsi del primo Ministro che riempiono di autostima l’India e i suoi abitanti, e grazie alla grande capacità retorica del presidente indiano, portano il Paese sulla via di una progressiva induizzazione, a scapito della comunità musulmana dell’India (circa il 15% del miliardo e quattrocento milioni di abitanti), che, dopo l’Indonesia – e in concorrenza con il Pakistan – rappresenta la concentrazione islamica più alta al mondo.

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Quest’anno, comunque, la vera celebrazione della Festa della Repubblica Indiana è avvenuta – soprattutto per la comunità hindu – qualche giorno prima, e non nella capitale. Il centro della celebrazione è stata la città di Ayodhya, nello stato dell’Uttar Pradesh, sempre nel nord India, finora una cittadina (meno di 50 mila abitanti) sperduta nelle campagne ed oggi nota in tutto il mondo.

La città è famosa a causa di una secolare diatriba fra hindu e musulmani. Considerata luogo natale di Ram, una delle divinità più amate dagli hindu, dai tempi dell’Impero Moghul (XVI-XVIII sec.) ha, invece, avuto come riferimento una controversa moschea, sorta proprio nel luogo in cui i seguaci di Ram pensano sia nato il dio del loro pantheon.

Il contenzioso si è risolto – se vogliamo usare un eufemismo – con la distruzione della moschea nel 1992, quando volontari arrivati da tutta l’India demolirono il luogo di culto musulmano accendendo, fra l’altro, la miccia di una rivolta che vide scontri sanguinosi in tutta la penisola indiana con migliaia di morti.

Non si è mai saputo quante siano state le vittime. Dopo processi, sentenze e ricorsi, qualche anno fa – nel 2019, esattamente dopo cinque anni di amministrazione Modi e del Bharatya Janata Party (Bjp) –, la Corte Suprema dell’India decretò con sentenza definitiva che la moschea poteva essere ricostruita ma in un altro luogo, e che il dio Ram avrebbe potuto a riavere il suo tempio nel luogo contestato.

Il 22 gennaio scorso, con una cerimonia degna della parata per la Festa della Repubblica e di quella dell’Indipendenza, Narendra Modi ha officiato l’inaugurazione e la consacrazione del nuovo tempio, costruito – anche se non ancora completato – a tempo di record, di fronte ad una folla i cui numeri restano probabilmente incalcolabili, che ha raccolto magnati dell’industria (come Mukesh Ambani), stars di Bollywood (come Amithab Bachhan), politici, amministratori e molte decine di migliaia di persone – dai poveri dei villaggi circostanti alla classe media e medio alta, che da sempre è ammaliata dalla retorica modiana.

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Nonostante la marea arancione – tipico colore simbolo dell’induismo, in particolare di quello fondamentalista e nazionalista rappresentato da Modi e dal suo partito – che tradiva la presenza di un numero altissimo di purohit (sacerdoti hindu) è stato chiaro che il celebrante principale della cerimonia era il Primo Ministro, che si è rivolto al dio Ram con parole che hanno senza dubbio toccato il cuore di ogni fedele a lui devoto: «Ci sono voluti secoli per ricostruire la tua casa e ce ne scusiamo. Ma ora è fatta».

La pomposa cerimonia di domenica scorsa è forse l’emblema più significativo dell’attuale India di Modi. Nata come una repubblica laica, che, nel contesto indiano significa che l’autorità politica deve garantire uguale attenzione a ogni credo religioso, la penisola del sub-continente è oggi uno stato-nazione che ha imboccato la strada del nazionalismo hindu. E questo a scapito di un 20% dei suoi cittadini che, invece, si riconoscono in altri credo religiosi.

Nella concezione di laicità indiana, al contrario di quella europea, politica e religione non sono mai staccate nè tantomeno separate. Jawaharlal Nehru, primo leader dell’allora neo-nata repubblica, pur essendo un brahmano hindu, ha sempre salvaguardato la dignità e la libertà religiosa, come pure i diritti umani e sociali, di tutti i cittadini. Per questo, e non per la sua indifferenza alla religione di appartenenza, è stato considerato un laico, padre della Repubblica Indiana.

Oggi, invece, dopo dieci anni di progressivi processi di penetrazione di un hinduismo chiaramente fondamentalista all’interno della società e dell’amministrazione dell’India, il Paese ha celebrato un atto religioso, come la ricostruzione e consacrazione di un nuovo tempio per mano del suo Primo Ministro.

Nei prossimi mesi gli indiani andranno alle urne e Modi, già chiaramente favorito per la vittoria che lo porterebbe a un terzo mandato, con l’atto religioso e fortemente politico di domenica scorsa ad Ayodhya, ha, di fatto, aperto una campagna elettorale che è già chiusa e che, salvo imprevisti attualmente impensabili, lo vedrà facile vincitore nelle prossime elezioni.

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