La voce libera di David Maria Turoldo
Oasi di pace e di preghiera, l’abbazia romanica di Sant’Egidio a Fontanella di Sotto il Monte (Bergamo) ha accolto gli ultimi 28 anni di una grande figura che ha attraversato tutto il Novecento: lo scrittore e poeta friulano David Maria Turoldo, frate dei Servi di Maria (1916-1992). Fondatore a Milano, col confratello Camillo De Piaz, della “Corsia dei Servi”, un centro culturale aperto al rinnovamento sociale e religioso, collaborò attivamente con la resistenza antifascista, creando e diffondendo dal suo convento il periodico clandestino L’Uomo. Ardente figura di sacerdote che amava la Chiesa e la voleva più accogliente, per un decennio predicò nel duomo milanese, ma per le sue idee ritenute troppo audaci fu dal suo stesso Ordine allontanato e inviato in più sedi, anche all’estero. Il nuovo clima dovuto al Vaticano II favorì il suo ritorno a Milano, non senza l’interessamento del sindaco di Firenze Giorgio La Pira.
Dopo la morte di papa Giovanni, cui era molto legato, Turoldo ottenne di stabilirsi presso l’abbazia di Sant’Egidio e da lì continuò il suo servizio di “voce profetica”, fondando tra l’altro una comunità aperta a persone di tutte le fedi e anche a non credenti: la Casa di Emmaus. Morì di cancro nell’ospedale San Pio X di Milano. Il commento di Mariangela Maraviglia, autrice di una sua biografia edita da Morcelliana: «La malattia divenne invito ad andare “all’essenziale”, accogliendo ogni giorno come “un giorno nuovo, che non è mai stato vissuto da nessuno sulla terra”, come confessò a Enzo Biagi in un’intervista televisiva. Andare all’essenziale significò per lui concentrarsi sui temi “ultimi” del dolore, della morte, di Dio, senza mai dimenticare quell’esigenza di fraternità, libertà, giustizia, che lo aveva da sempre alimentato».
Oggetto, spesso, di critiche e discussioni per le sue posizioni teologico-dottrinali controcorrente, Turoldo fu invece universalmente apprezzato per l’azione pastorale improntata ad un profondo senso di solidarietà verso poveri e perseguitati (oggi sarebbe additato ad esempio da papa Francesco!).
Di alto valore la produzione poetica. Tra le sue opere vanno ricordate: Io non ho le mani, Se tu non riappari, Il sesto angelo, O sensi miei, Tempo dello spirito e i postumi Il dramma è Dio e Povero sant’Antonio! L’ultima, pubblicata da Edb, s’intitola Gridi e preghiere: raccolta di testi poetici, talvolta accompagnati da prose esplicative, pubblicati dal 1971 al 1972 sulla rubrica omonima del periodico Sette giorni in Italia e nel mondo, diretto da Ruggero Orfei. Con essi Turoldo dà forma a una poesia civile che si fa carico delle questioni del suo tempo (ma che permangono anche nel nostro), proponendo istanze di rinnovamento della vita civile e spirituale. Come quando, in riferimento alla pace, propone scelte radicali del tipo gandhiano, ma anche cristiano.
Un esempio è nella prefazione di Ruggero Orfei quando cita l’appello di padre David ai feddayn di «non uccidere più in Palestina – siamo nel 1972! –, nella ricerca di gesti unilaterali che lascino evidente e netta la responsabilità della violenza a chi la provoca e la compie. Per inciso, ma per caratterizzare una linea “ambientale”, ricordo che in quello stesso periodo Giorgio La Pira […] aveva proposto direttamente ad Arafat di procedere al riconoscimento di Israele e nello stesso tempo scegliere la costituzione di uno Stato palestinese con capitale Hebron. Era un momento in cui i palestinesi puntavano solo al dissolvimento dello Stato israeliano e pensavano a un unico Stato laico per ebrei, arabi e cristiani».
Vale la pena riportare parte di quel testo, intitolato Non uccidere più…:
Feddayn, ti parlo/piano, sottovoce,/che non mi odano i vivi: / ho perfino paura di farmi/sentire da questo/dio così adattato e civile.
Feddayn, ti parlo/per il foro della pallottola/che ti ha spaccato il cuore,/ora che è fuoriuscito/tutto l’odio/che ti ha portato alla morte/e tu sei tornato solo/alla tua disperazione. […]
Non c’è spiraglio di pietà/per te, Feddayn, nel mondo/intero. Tu potessi vedere le facce addolorate/degli speakers dai televisori;/come piangono, come/non hanno più parole/poveri speakers,/o mostruoso Feddayn.
Ora Israele ha il campo/libero, Israele/non ricorda più/il diario di Anna Frank;/ora Israele è l’occidente,/e anche Mosca da tempo/è occidente, anche Pechino.
Ormai siete soli, o Feddayn,/e non potete far niente./Lasciate ad altri la ferocia,/a chi la sa meglio usare:/voi siete troppo selvaggi,/bisogna essere civili/per saper essere crudeli.
Non uccidete più, o Feddayn!/Lasciatevi morire/nei vostri ghetti di sabbia:/e tu sia l’ultimo ucciso inutile.
Pace e solitudine abitano il cimitero sulla collina di Fontanella. La tomba di padre Turoldo, a ridosso del muretto di cinta, è tra le più semplici ed umili: una grande croce di legno con incisi soltanto il nome e le date di nascita e di morte. Intorno, vasetti di fiori e ceri dicono l’omaggio di tanti che l’hanno conosciuto e amato, magari soltanto attraverso una sua poesia. Sì, perché – come ha scritto il critico letterario Carlo Bo –, «padre David ha avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. Dandogli la fede, gli ha imposto di cantarla tutti i giorni. E lui ha continuato a cantare, fino all’estremo».
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