40 anni di stupore
Da Loppiano, lontano circa venti chilometri, venivamo tutti i giorni a Firenze per vendere libri, casa per casa. Erano gli anni del boom economico. I condomini erano letteralmente presi d’assalto da persone, in genere uomini in cravatta, eleganti, ventiquattrore di similpelle, con depliant coloratissimi, che offrivano lucidatrici di pavimenti, pentole, detersivi miracolosi, enciclopedie di tutte le misure e di tutti i colori, corsi di inglese per persone anziane… Insomma anch’io ero un venditore. Avevo uno zaino carico di libri e di desiderio di svuotarlo. Pesava. Io che fino a qualche mese prima studiavo greco e latino ero tra quelli che non sanno fare niente e ai quali venivano affidati i lavori più impensati. Per settimane avevo selezionato per delle ditte di Prato ritagli di stoffa, secondo il colore e il materiale. Poi dall’Olanda le balle di stracci, come li chiamavamo, non erano arrivate più; così noi, che venivamo da vari continenti, eravamo stati costretti a fare altro per mantenerci nella nascente utopistica cittadella del Movimento dei focolari, sorta qualche anno prima sui colli toscani e che cominciava a essere conosciuta. Venivamo a Firenze con un pulmino, un secco pranzo a sacco e lo stradario di una città che pensavamo aspettasse impaziente i libri di Città Nuova! Giravamo nelle periferie della raffinata città perché i portinai dei palazzi del centro ci cacciavano via. La pallida stanchezza con la quale di sera tornavamo a casa fece capire che durante i vari giri almeno una minestra calda sarebbe stata necessaria. In una trattoria, una fredda giornata di febbraio, attendo la minestra. Il locale è pieno di anziani soli, gente assonnata di stanchezza o di vino, assiderata di solitudine. Entra una coppia di innamorati. Il loro modo di muoversi attira la mia attenzione. Delicati, paurosi, fragili. Non è gente che va tutti i giorni in trattoria. Occhiaie e debolezza. Sazi d’amore ma non di pane. Vedo in loro la metafora della mia vita. Per amore non ho casa, per amore sono povero e non so cosa sarà di me domani. Per amore. Ma quale amore? Ho lasciato la mia città, la mia casa, i miei progetti. A un certo punto qualcuno, come un fulmine, invade il mio campo, azzera i miei calcoli e mi propone di ricominciare. E stavolta il progetto non è nelle mie mani, quindi una vita in dialogo con… l’infinito. Io stesso non so cosa mi stia succedendo. L’unico pallido paragone è l’innamoramento. Di colpo tutto si colora di una dimensione fino a quel momento occulta. In una stanza buia si apre improvvisamente una finestra. Vedi cose che prima non vedevi. Con una potenza misteriosa che disarma la ragione vieni chiamato a uscire dalla tua terra, come Abramo, e andare verso una terra che ti sarà indicata. Una terra an- cora ignota. Stai seguendo un altro, le orme di un altro. Non avrei mai immaginato che la mia vita prendesse una tale direzione. Per quanto credente, mai avevo pensato a una decisione che mi tagliasse fuori da quel giro di avvenimenti prevedibili e sereni, dalle amicizie, dai parenti, dalle feste e soprattutto dalla mia città dove mi vedevo sistemato e felice. Nessuno mi capisce e io stesso non so spiegare. Guardo gli innamorati. La radio dalla cucina fa arrivare, col fumo pesante del fritto, una canzone di Gino Paoli: Gli innamorati sono sempre soli. Non sembra che mi abbiano fatto un lavaggio di cervello, come continua a scrivermi un’amica. Fuga? Da chi, da che cosa? Che io non abbia un carattere forte è vero, ma la spinta che mi ha fatto fare la follia di lasciare i miei progetti, per mettermi in ascolto di un altro, non ha niente a che fare con la personalità. È un misterioso amore. Un amore che mi rende solo. Un amore necessario per rivolgermi agli altri, a tutti. Non tornerei mai indietro. Quello che ho trovato supera il valore di tutto il percorso fatto finora. Gli amanti si coccolano. Negli occhi di lei un velo di tristezza. Penserà alla sua famiglia? Soffriranno per colpa sua, non accettano il suo amico? Sarà fuggita da casa? Mi chiedo perché la scelta che ho fatto è causa di dolore per altri. Ho scelto di essere scelto da Dio. Guardo quegli innamorati pallidi, felici e poveri. Unico bene il loro amore. Come me anch’essi mangiano soltanto una minestra calda. Non di più. Lui guarda i posacenere sui tavoli di unta formica celeste. Forse cerca qualche cicca da fumare. Lei guarda un anziano grasso che divora una cotoletta. Seguo i lineamenti delicati di lei. Raggiungo la faccia rotonda dell’anziano. Anche lui è come me, come lei, come gli innamorati. È solo. Svuotato il piatto di minestra mi preparo a uscire dalla trattoria. Cappotto, zaino. Un’occhiata ai giovani. Non so come, mi è spontaneo salutarli. Mi rispondono con dolcezza. Uscito per la strada anonima, dominata da un traffico senz’anima, quella coppia innamorata mi sembra mi abbia donato un fiore delicato, senza protezione. Vorrei regalare loro qualcosa. Ma cosa? Il loro amore li rende inavvicinabili. La loro povertà li fa ricchi, potenti. Mi distraggono due stranieri che chiedono qualche indicazione. Cominciamo a parlare e facciamo un pezzo di strada insieme. Jacques, che studia arte drammatica a Parigi, fa uno stage in Italia e non poteva mancare la visita a Firenze. Marianne studia a Roma scenografia. Racconto perché sono a Firenze ed è ineludibile usare la metafora degli innamorati appena incontrati. Parlare di Dio che mi ama, in mezzo al traffico violento, alla gente spenta, alle vecchiette sospettose, è ancora più stridente. Jacques mi dice che non sente il bisogno di avere una fede anche se ha una sua religiosità intima dove trova rifugio. Salutandomi, Marianne dice: Tu hai scelto liberamente il tuo stesso destino. Hai negli occhi una certezza che non lascia indifferenti. Questo incontro sembra la mossa di un regista nascosto. Mentre li vedo allontanare finisco di cantare la canzone di Paoli sugli innamorati che sono gli unici padroni del mondo.