Taiwan, la terza volta dei democratici
Dopo quelle svoltesi in Bangladesh la scorsa settimana, gli ultimi giorni hanno visto un altro appuntamento elettorale di grande rilevanza non solo asiatica, ma mondiale.
Il 13 gennaio, infatti, diciannove milioni di Taiwanesi si sono recati alle urne per eleggere il nuovo presidente e i 113 membri dell’assemblea nazionale (Legislative Yuan). Si tratta di elezioni sempre molto delicate perché i rapporti fra la Repubblica Popolare della Cina e l’isola di Taiwan sono sempre cruciali per gli equilibri non solo fra i due Paesi, ma anche per l’area dell’estremo oriente, i cui commerci (con Giappone e Corea) passano in gran parte proprio dal canale fra la Cina popolare (mainland) e quella insulare. Inoltre, gli stessi equilibri cinesi sono all’ordine del giorno nei rapporti fra Cina e Stati Uniti. Una situazione, dunque, che ha risvolti a livello globale.
All’interno dell’isola la questione della riunione con la Cina popolare è appoggiata – secondo gli ultimi rapporti – solo dall’8% della popolazione locale mentre il 28,6% desidera che si mantenga lo stato attuale della situazione e il 32,1% spera che tale situazione diventi permanente.
In effetti, questo corrisponde al fatto che ben il 63% della popolazione dell’antica Formosa si considera taiwanese, in particolare le nuove generazioni.
In questo contesto, i candidati in corsa per la presidenza erano tre: Lai Ching-te del Democratic Progressive Party (Dpp), già vice-presidente uscente, Hou Yu-ih, già sindaco della New-Taipei oltre che ex-poliziotto, in rappresentanza del Kuomintang (Kmt) e, infine, Ko Wen-je del Taiwan People’s Party (Tpp), ex-sindaco della capitale Taipei, molto vicino a Hou, tanto che entrambi sono stati tentati fino alla fine di presentarsi insieme. In sintesi, per comprendere la posizione dei tre riguardo ai rapporti dell’isola con la Cina Popolare basta dire che Lai ha sempre considerato i suoi due avversari come ‘pro-Cina’, mentre Hou e Ko accusano Lai di essere a favore dell’indipendenza dell’isola.
Le posizioni sono ancora più chiare se si pensa che Lai ha stigmatizzato la tornata elettorale come una scelta fra democrazia ed autocrazia, mentre Hou ha proposto l’alternativa fra guerra e pace. Toni forti, ma che non si discostano dalla realtà delle cose. Non è affatto un mistero che Xi Jin Ping abbia recentemente fatto dichiarazioni molto esplicite sul prossimo ritorno dell’isola sotto il controllo di Pechino, che considera Taiwan parte della grande Cina.
Non sono mancati anche segnali di forza come sconfinamenti militari in acque o spazio aereo taiwanesi. D’altra parte, la recente esperienza di Hong Kong ha portato l’84% della popolazione a rifiutare la possibilità di avere “uno stato con due sistemi”, come quello per decenni proposto per Hong Kong e terminato nell’annessione piena completatasi negli ultimi anni.
Alla luce di questi elementi, si può, quindi, capire la vittoria chiara del candidato del Dpp, che, pur non avendo ripetuto la performance della presidente precedente ha, comunque, ottenuto un buon margine di voti rispetto agli altri due concorrenti. È piuttosto il parlamento a destare qualche preoccupazione, in quanto la stessa chiara maggioranza mancherà per governare l’isola in tranquillità. Al centro degli interessi dei taiwanesi oggi sta la questione sicurezza. Il 43% della popolazione teme un’escalation nelle tensioni con la Cina Popolare.
I risultati elettorali, tuttavia, non devono essere letti solo con le lenti di ingrandimento taiwanesi. È necessaria una lettura delle possibili reazioni da parte di Pechino o, almeno, il tentativo di immaginare quali saranno le mosse del presidente Xi Jin Ping di fronte al fatto che il Dpp ha vinto per la terza volta di seguito, un record nella storia democratica dell’isola.
È difficile prevedere le future mosse dello scomodo vicino. Nonostante tutto quanto si è detto e quanto appare in superficie, ogni taiwanese, anche se non lo ammetterà mai apertamente, sa che un giorno il suo Paese sarà parte della Cina. Si tratta di vedere come accadrà e quali saranno le condizioni proposte o, si spera mai, imposte. La Cina, senza dubbio, dovrà ora prendere delle contromisure nella sua politica a diversi livelli.
Pechino può esercitare pressioni forti a livello diplomatico, economico e internazionale con conseguenze non indifferenti sul governo di Taipei. La vittoria di Lai è una garanzia, per ora, per i taiwanesi che optano per lo status quo, ma è una sconfitta per la politica di Pechino.
D’altro canto, anche Taiwan deve essere prudente per evitare escalation indesiderate, tenendo conto dell’appoggio che riceve non solo dagli USA ma anche da Giappone, Sudcorea ed Australia, soprattutto per motivi economici.
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