Stati Uniti e Gran Bretagna attaccano in Yemen

L’attacco dell’11 gennaio da parte di Washington e Londra contro la fazione houti in territorio yemenita viene discussa a livello internazionale. Chi ha diritto a intervenire? E così si continuano a lasciare nell’ombra le vittime civili
Manifestanti iraniani contro Usa e Gen Bretagna a causa dell'attacco in Yemen, davanti l'ambasciata inglese a Teheran, Iran, 12 gennaio 2024. ph Ansa EPA/STR

L’esistenza stessa del diritto internazionale, già sottoposto a duri attacchi dopo decenni di delegittimazione delle istanze internazionali, è in questi giorni al centro dell’attenzione, con una sorta di mantra che dice: «Siamo noi ad avere ragione secondo le regole internazionali». Così in Donbass le parti si richiamano al diritto internazionale per far valere la propria legittima posizione: se Kiev sostiene, per certi versi con ragioni indiscutibili, che Mosca ha semplicemente invaso uno Stato straniero, Mosca ribatte che l’appello al soccorso proveniente dalle popolazioni russofone del Donbass è legittimo, come legittimo è l’intervento per assicurare l’incolumità di parte dello stesso popolo russo.

Così a L’Aja si discute animatamente se si possa parlare di genocidio a proposito dell’attacco israeliano nella Striscia di Gaza: la richiesta sudafricana mira prima di tutto a “costringere” Israele a cessare il fuoco e a smetterla di bombardare le popolazioni palestinesi rinchiuse in pochi chilometri quadrati, basandosi in particolare sulle ripetute dichiarazioni di esponenti dell’ultradestra che sostiene il governo Netanyahu e che auspicano a gran voce la distruzione dell’intero popolo palestinese e sulla “sproporzionata” risposta dei militari con la stella di Davide sul petto; mentre la risposta israeliana alle accuse sudafricane nega ogni intento di genocidio, facendo piuttosto valere il diritto di risposta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, quelli sì, secondo la parte israeliana, tacciabili di volontà di genocidio.

Ora si apre un altro fronte. L’11 gennaio, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, in un connubio non nuovissimo ma comunque poche volte usato, hanno attaccato la fazione houti, bombardando postazioni filo-iraniane in territorio yemenita. Lo sappiamo, gli houti sono sciiti legati a Teheran, e nello scacchiere mediorientale sono intervenuti contro Israele attaccando navi transitanti nello specchio di Mar Rosso antistante le coste di Sana’a, in particolare quelle dirette nei porti israeliani, e lanciando missili contro il territorio israeliano. La guerra di Gaza ha così esteso la sua nefasta influenza nello Yemen, oltre che nei vicini Libano e Siria.

Mosca, Teheran e Pechino, tra gli altri, parlano di tradimento del diritto internazionale, perché gli attaccanti starebbero ripetendo quanto fatto dai russi nel Donbass, semplicemente. Altri parlano di risposta «non proporzionale» all’instabilità provocata dagli houti nel Golfo Persico, instabilità che si ripercuote nei commerci internazionali che passano per lo stretto di Suez. Gli houti si difendono affermando che gli attacchi nel mare antistante lo Yemen erano diretti solo verso navi israeliane o dirette in Israele.

A Roma, invece, non si condanna l’attacco, ma si fa notare piuttosto come l’Italia per intervenire avrebbe avuto bisogno di un voto parlamentare. Giusto ripeterlo, e si capisce allora la ragione del ritiro di Francia e Italia dalla coalizione per la protezione del commercio internazionale nel Mar Rosso, avvenuto qualche giorno addietro. Forse il vero motivo era semplicemente quello di non irritare gli alleati della regione. Ma chissà dov’è la verità.

Più in generale, ci si chiede se non siamo ormai arrivati all’anarchia internazionale, visto che due Stati qualunque, anche se non piccoli come Usa e Gran Bretagna, si arrogano il diritto di promuoversi come gendarmi del mondo. Nei fatti, siamo di fronte a una chiara riproposizione del modello di relazioni internazionali post 11 settembre, cioè in epoca di terrorismo: visto che l’attacco contro un dato Stato, pur non provenendo da entità statali precisi ma da organizzazioni non strettamente governative che tuttavia esplicano la loro azione in certi Stati e colpiscono in territori altrui, sarebbe “autorizzata” la risposta “proporzionale” di potenze straniere (da sole o in coalizioni estemporanee) colpite nei loro interessi, anche negli Stati che ospitano tali entità.

Queste infinite discussioni giuridiche – che pur tradiscono il grande imbarazzo politico internazionale per un quadro di instabilità generalizzata – contribuiscono a tenere in secondo piano le sofferenze delle vittime civili, dei più poveri, e continuano a mettere la sordina alle grida delle popolazioni civili palestinese e yemenita che pagano un esorbitante prezzo in vite umane e in risorse distrutte. Si parla di diritto internazionale e si dimenticano i diritti umani basilari, si fanno operazioni militari scellerate, senza il minimo effetto frenante da parte di chi, come l’Onu, dovrebbe far sentire la sua voce nei conflitti tra Stati. Siamo sul bordo di una crisi di inaudita gravità, non solo in quello che in Europa chiamiamo Medio Oriente, ma anche in luoghi a noi più vicini.

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