La Pura e il Tesoro nascosto
Nata intorno al 1817 a Qazvīn, nell’attuale Iran nord-occidentale, il suo vero nome era Fātimih Umm-i-Salmih, ma è ricordata come Tahereh, ossia “La Pura”. Tutto di lei faceva presagire un destino di gloria o di martirio, tanto esulava dal tipo di donna secondo la cultura del suo tempo: favorita da un’intelligenza prodigiosa, avida di sapere, capace come pochi dotti uomini di disquisire sul Corano, sulle tradizioni e sulla legge islamica non solo in persiano, ma anche in arabo e in turco, le erano stati eccezionalmente consentiti studi di teologia, giurisprudenza e scienze letterarie. Anche la sua bellezza era fuori del comune. A tante doti si aggiungeva l’estro poetico, che rinverdiva la tradizione mistico-amorosa della lirica persiana (oggi 70 sue composizioni sono pubblicate da Jouvence ne Il Tesoro nascosto). Ce n’era abbastanza per suscitare nel padre orgoglio e rammarico al tempo stesso: «Se fosse stata un maschio, avrebbe dato lustro alla mia casa e mi sarebbe succeduta». L’accomunava invece alle altre donne il suo stato di sposa e madre, essendosi unita giovanissima in matrimonio con un cugino, elevato più tardi alle alte gerarchie dell’Islam sciita.
Agli inizi degli anni quaranta dell’800 la svolta che le aprì un nuovo percorso di vita coincise con la sua adesione entusiastica alla Scuola shaykhī, la cui interpretazione metaforica del Corano – avversata dalla maggior parte del clero persiano, fedele a quella letterale – annunciava come imminente il ritorno dell’“Īmām nascosto”, figura carismatica destinata a restaurare la religione e la giustizia prima della fine del mondo, venerata soprattutto nell’Islam sciita. Inevitabile il conflitto con le convinzioni tradizionali della famiglia d’origine e di quella acquisita, fino ad arrivare nel 1843 alla separazione coniugale.
Il radicalismo della poetessa si accentuò con l’identificazione, l’anno successivo, dell’“Īmām nascosto” nella persona di Siyyid ‘Alī Muhammad detto il Bāb (la Porta), che da Karbala – una delle 4 città sacre degli sciiti nell’odierno Iraq – lanciò un messaggio profondamente rivoluzionario per la Persia del XIX secolo: respinte le leggi religiose e sociali musulmane giudicate sorpassate e repressive, affermava la parità di diritti fra uomini e donne, sollecitava l’abolizione della schiavitù e la rieducazione dei delinquenti; soprattutto, criticava i privilegi del ricco clero, ritenuto responsabile dell’arretratezza culturale e religiosa della popolazione; infine, annunciava il Promesso di Dio che avrebbe riunito tutti i popoli sotto un’unica religione. Gli insegnamenti del Bāb, se suscitarono fervore in ogni classe sociale, furono motivo – da parte delle autorità ecclesiastiche dell’epoca – di aspre persecuzioni contro i suoi seguaci, 20 mila dei quali vennero massacrati negli anni successivi; lo stesso maestro subì nel 1850 la condanna a morte per blasfemia e apostasia.
Unica donna accolta fra i suoi primi 18 discepoli, pur senza averlo potuto conoscere (arrivò a Karbala dopo il martirio di lui a Tabriz, rimanendo ospite della vedova), Tahereh divenne un’ardente predicatrice della dottrina del Bāb, le cui opere aveva tradotto in arabo. Il suo comportamento anticonformista scandalizzò a tal segno il clero di Karbala e Baghdad che le accuse di immoralità arrivarono fino al sultano di Costantinopoli; esse tuttavia si spuntarono contro la sua fama di donna saggia e virtuosa, avendo per il momento come unico effetto la segregazione della poetessa nella casa paterna: prigionia di cui ella approfittò per accrescere la sua produzione letteraria e dottrinale.
Due anni dopo, favorita da amici, la sua fuga a Teheran. Così la poetessa voltava definitivamente le spalle alla famiglia e ai figli, che la legge islamica affidava al padre. Pur consapevole che l’attendeva un destino simile a quello del venerato Bāb, vi andava incontro con coraggio, quasi ansiosa di testimoniare compiutamente il proprio credo.
Nel precipitare degli eventi, il 15 agosto 1852 tre giovani babisti squilibrati tentarono di assassinare lo Scià per vendicare la morte del loro maestro. Il fallimento dell’impresa scatenò un’ondata di feroci repressioni nelle quali venne coinvolta la stessa Tahereh, che presagendo la fine indossò abiti nuziali, si profumò e uscì dal riparo del suo alloggio. Prima di venire strangolata da un soldato ubriaco avrebbe detto ai suoi carnefici: «Potete uccidermi quando volete, ma non potete fermare l’emancipazione delle donne».
Anche se la maggior parte delle sue opere è andata perduta, la voce impavida e affascinante della Pura, invano messa a tacere dai suoi detrattori, risuona nuovamente – quasi in risposta ai fermenti femminili in Iraq dei nostri giorni – attraverso la raccolta del Tesoro nascosto, simboleggiante l’Inviato di Dio da lei annunciato: «Mostra il Tuo Sole senza nubi,/scosta il velo della Tua bellezza./Si smarriranno i saggi,/gli stolti rinsaviranno./I dissennati si ravvedranno,/i sobri perderanno il senno inebriati./Servi e padroni in un solo abbraccio;/non più servi, non più padroni».
Sono versi spesso incandescenti di un’anima assetata di divino, che riecheggiano le espressioni più ardite dei mistici di tutti e tempi. Come questi: «Senza posa l’Amore chiama./Il Suo invito risuona nel mondo:/”Se aneli a calcare la Mia via/non temere i marosi del dolore./Allora sbarcherai sulle rive del Mio mare”./Sono zingara che sul Tuo tetto batte il tamburo./Sono colomba sperduta nella Tua rete caduta./Sono civetta che canta nella Tua notte./Annientata a me stessa, vivo nel Tuo nome,/lungi da me dell’io e del noi l’assillo».