La cultura di pace ha bisogno di scelte concrete
«Parlare di pace, oggi, non è astratto buonismo. Al contrario, è il più urgente e concreto esercizio di realismo, se si vuole cercare una via d’uscita a una crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità».
Mentre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella pronunciava l’importante discorso di impronta costituzionale di fine anno 2023, nella Striscia di Gaza «nessuno ha festeggiato l’arrivo del nuovo anno ma il cielo si è illuminato della luce di nuovi missili» ha detto padre Ibrahim Faltas ad Agensir « ci sono stati finora 30.000 morti, 60.000 feriti, si stimano 10.000 persone ancora sotto le macerie. 40.000 bambini sono diventati orfani a causa di questa guerra: mi sembrava un numero troppo alto ma le famiglie palestinesi hanno tanti figli ed è un numero realistico perché sono morte tante mamme».
Più che il plauso unanime e bipartisan le parole di Mattarella meritano di non durare lo spazio rituale di una notte di passaggio di anno, ma di essere discusse per poi capire come metterle in pratica.
La sera del 31 dicembre la marcia della pace promossa dalla Chiesa italiana è partita dall’ossario di Oslavia, un luogo dove cioè riposano i resti di 57.741 soldati morti nelle battaglie di Gorizia del primo conflitto mondiale. Di circa 36 mila di questi giovani sacrificati nel mattatoio del conflitto di trincea non si sono trovati gli elementi necessari ad essere identificati (per questo si chiama “ossario”).
Sono rimasti “ignoti” come il loro commilitone trasferito a Roma nel monumento del Vittoriano sotto il simulacro della dea Roma seguendo una strategia propagandistica promossa dal generale Douhet, lo stesso che teorizzò per primo l’uso dell’aviazione sulla popolazione civile.
Di fronte alle vecchi e nuove “inutili stragi” occorre perciò una riflessione profonda davanti al fatto che, come afferma il presidente Mattarella davanti alle tragedie in corso in Terra Santa e in Ucraina, «la guerra – ogni guerra – genera odio. E l’odio durerà, moltiplicato, per molto tempo, dopo la fine dei conflitti».
«Il rischio, concreto – sottolinea Mattarella- è di abituarsi a questo orrore. Alle morti di civili, donne, bambini. Come – sempre più spesso – accade nelle guerre. Alla tragica contabilità dei soldati uccisi. Reciprocamente presentata; menandone vanto. Vite spezzate, famiglie distrutte. Una generazione perduta. E tutto questo accade vicino a noi. Nel cuore dell’Europa. Sulle rive del Mediterraneo».
Non serve invocare la pace – dice giustamente il nostro garante della Costituzione- ma che «venga perseguita dalla volontà dei governi. Anzitutto, di quelli che hanno scatenato i conflitti».
In che modo? Davanti a quel monumento di Oslavia, eretto a 5 chilometri da Gorizia nel 1938 con l’intento di consolidare la retorica nazionalista, al tramonto dell’ultimo giorno del 2023 è partita la marcia diretta ad arrivare nella cattedrale di Nova Gorica, in Slovenia. Tra i circa mille marciatori era presente Elio Pagani, uno dei lavoratori che con la propria obiezione di coscienza alla produzione bellica ha reso possibile nel 1990 adottare una legge italiana ( la 185) che pone un freno all’esportazione di armi verso Paesi in guerra. Quale migliore testimone di una pace che non si ferma alle invocazioni ma mette in gioco tutta l’esistenza? Quale migliore corrispondenza all’impianto costituzionale invocato da Mattarella che è garante di quella Carta fondativa della Repubblica?
In silenzio, all’imbrunire del giorno, davanti a quel monumento che si erge come una torre di guardia, sono state lette alcune pagine delle “Memorie di un cristiano ingenuo” di Igino Giordani, futuro padre costituente, che in questi luoghi, da ventenne, visse il dilemma dell’obbedienza all’uso delle armi contro il nemico, giungendo alla conclusione di non sparare un colpo “per timore di uccidere un fratello”.
La disobbedienza agli ordini era punita ferocemente dalla circolare Cadorna che ordinava di punire con la fucilazione ogni atto di insubordinazione verso quella strategia incurante delle perdite umane che a Gorizia condusse ad un immane eccidio di giovani vite, un orrore rimasto nel canto “Gorizia tu sei maledetta” che è stata riprodotta durate il cammino della marcia.
Il dilemma della disobbedienza è quanto mai attuale oggi. Esiste una campagna per sostenere gli obiettori di coscienza russi e ucraini. Pur in questa fase estrema di guerra esistono in Israele casi di refusenik, giovani che rifiutano di prestare il servizio militare obbligatorio perché contrari alla politica dei territori occupati. Tra i palestinesi è diffusa ma poco nota, a partire dai media, la forma della resistenza nonviolenta che rifuta l’uso delle armi. Esistono poi l’associazione dei combattenti per la pace, Fighters for peace, promossa da ex militari di parti avverse che promuovono il dialogo e la pace dopo aver sperimentato l’assurdità della devastazione dlla guerra.
Un forte invito a “disertare la guerra” è stato lanciato il primo gennaio dalla piazza grande di Bologna alla presenza del sindaco Matteo Lepore, il vescovo cardinale Matteo Zuppi, la rappresentante della comunità ebraica e il presidente dell’Unione delle comunità islamiche italiane.
Una pluralità di posizioni concordi nel ripudio della guerra che richiede perciò di essere declinata concretamente per non restare velleitaria. In questo senso è significativo quanto ha scritto sul conflitto in Terra Santa in questi giorni Giuseppe Savagnone, direttore dell’ufficio per la pastorale della cultura della diocesi di Palermo, a proposito della nostra responsabilità come parte dell’Occidente sulla fornitura di armi in Medio Oriente.
È vero, quindi, quanto afferma Mattarella circa il fatto che «la guerra non nasce da sola. Non basterebbe neppure la spinta di tante armi, che ne sono lo strumento di morte. Così diffuse. Sempre più letali. Fonte di enormi guadagni. Nasce da quel che c’è nell’animo degli uomini. Dalla mentalità che si coltiva. Dagli atteggiamenti di violenza, di sopraffazione, che si manifestano. È indispensabile fare spazio alla cultura della pace. Alla mentalità della pace».
Ma porre la questione di come sostenere la disobbedienza alla guerra e di come fermare il flusso delle armi che alimentano gli eccidi senza fine è il primo frutto di una cultura di pace.
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it