Alla ricerca del deposito per i rifiuti radioattivi
51 zone in cui poter realizzare il deposito unico nazionale per i rifiuti radioattivi: è la Cnai, la Carta nazionale delle aree idonee, pubblicata a metà dicembre dal ministero dell’Ambiente e Sicurezza Energetica (Mase). C’è quindi stata una (pur leggera) “scrematura” rispetto alle 67 incluse a inizio 2021 nella Cnapi, Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee, alla cui pubblicazione era seguita una consultazione pubblica.
Sono sei le regioni in cui queste aree si concentrano: se ne contano 10 in Basilicata, 4 a cavallo tra questa e la Puglia, una in Puglia, una ventina nel Lazio (tutte in provincia di Viterbo), cinque in Piemonte (tutte in provincia di Alessandria), otto in Sardegna e due in Sicilia (entrambe in provincia di Trapani). Si prevede che il deposito abbia una superficie di 150 ettari, di cui 40 dedicati al Parco Tecnologico; e contenga 78 mila metri cubi di rifiuti a bassa e media intensità e 17 mila ad alta – questi per un massimo di 50 anni, per poi essere sistemati in un deposito geologico di profondità al momento non definito per i successivi 300 anni – con una spesa preventivata di 900 milioni di euro. Vi verranno depositate non tanto scorie di centrali nucleari (che abbiamo solo in quantità minime, dai nostri reattori non più attivi da oltre trent’anni); quanto piuttosto rifiuti come quelli ospedalieri, dato che nessuno vorrebbe rinunciare a una radiografia, a una tac o alla radioterapia in caso di bisogno, o quelli di alcune lavorazioni industriali. Va peraltro precisato che l’Italia attualmente sta pagando per smaltire all’estero almeno parte di questi rifiuti.
Le aree sono state individuate sulla base di criteri legati al basso rischio vulcanico, sismico, idrogeologico, ecc; nonché su altre caratteristiche di sicurezza del territorio legati ad esempio all’assenza di fenomeni di subsidenza o sollevamento del terreno, di specie animali o habitat a rischio. C’è comunque la possibilità, per i 30 giorni successivi alla pubblicazione, di presentare autocandidature da parte dei Comuni: e alcuni – tra cui Trino Vercellese, dove già c’è una vecchia centrale dismessa e il cui sindaco ha più volte chiesto che si trovasse una soluzione sicura e definitiva alle scorie ancora presenti, magari costruendo il deposito proprio lì – hanno già fatto pervenire la propria (cosa che, come facilmente intuibile, porterebbe sul territorio contributi pubblici milionari, oltre a 4.000 occupati nel cantiere per 4 anni e a 700-1.000 nella gestione).
Un’iniziativa però particolarmente criticata da Legambiente: «Ma perché mai – ha dichiarato in un comunicato Stefano Ciafani, presidente nazionale – i territori di questi Comuni, se prima non soddisfacevano gli stringenti requisiti richiesti in fase di valutazione, ora invece potrebbero essere ritenuti “idonei” ad ospitare il deposito nazionale delle scorie nucleari? Si è imboccato un incomprensibile “percorso parallelo” a quello seguito finora, solo per dare modo ai Comuni scartati di ritornare in pista con proprie autocandidature. È noto, ad esempio, che il sindaco del Comune di Trino, in Piemonte, fin dall’inizio non abbia mai nascosto il suo interesse ad avere sul proprio territorio il Deposito Nazionale, nonostante sono ben sei i criteri che avevano determinato la sua esclusione. Per quale motivo ora potrebbe, invece, proporsi ufficialmente per essere scelto?». Il timore è quindi quello che rientrino dalla finestra aree che erano uscite dalla porta, allungando i tempi di individuazione e costruzione del sito – cosa ritenuta urgente dall’associazione – e compromettendone la sicurezza.
Ma perché dunque un sito unico, e perché ce n’è la necessità così urgente? Al di là del fatto che la creazione di un deposito unico è prevista a livello europeo, e quindi è questa normativa che siamo tenuti a rispettare pena una procedura di infrazione, i livelli di sicurezza garantiti da queste strutture – che sono più agevolmente ed efficientemente realizzabili mantenendo dimensioni più grandi – sono più alti di quelli che si possono garantire con i punti di deposito più piccoli. L’Italia sta vivendo l’anomalia per cui i piccoli depositi provvisori sono invece diventati di lungo termine, ponendo – quelli sì – problemi di sicurezza. I depositi come quello che si prevede di costruire prevedono invece un involucro a ben quattro strati, realizzati in metallo, calcestruzzo ed altri materiali: detta in termini comparativi, molti rifiuti speciali anch’essi pericolosi per la nostra salute vengono smaltiti con criteri meno rigorosi.
Rimane però il fatto che, inutile negarlo, al di là di tutte le misure di sicurezza un deposito di rifiuti radioattivi a pochi km da casa non fa proprio piacere: e infatti alcune di queste aree tramite i propri amministratori locali hanno già ribadito il proprio no, in particolare tra Puglia e Basilicata, dove già nel 2003 l’azione popolare aveva bloccato la realizzazione del deposito a Scanzano Ionico. Rimane quindi da vedere quante autocandidature effettivamente perverranno, e come queste si inseriranno nella lista delle aree già individuate – che magari, viceversa, volentieri si sfilerebbero.