A passo di pecora

Dal Veneto al Friuli: il "viaggio" di Caterina De Boni, pastora transumante

Il Buon Pastore di oggi si adatta ai tempi e quando le sue pecore si disperdono corre a salvarle… dal cielo. È accaduto lo scorso ottobre nella Val Masino, in provincia di Sondrio: un gregge di 120 pecore, spaventato forse da un predatore, era rimasto bloccato a 2300 metri di quota a Cavatorto sull’Alpe di Porcellizzo, in bilico sopra un dirupo in fondo al quale erano andati persi una ventina di capi. Stefano Villani, il proprietario, non si è arreso e impegnando i guadagni di una stagione, col supporto di un elicottero preso a noleggio, è riuscito a portare in salvo la maggior parte degli ovini, imbragati a gruppi in una rete.

La notizia abbastanza inconsueta non poteva non attirare la mia attenzione. Tanto più che nel medesimo periodo, vedi caso, ero intento a leggere un libro edito da Ediciclo che parla per l’appunto di pastori e di greggi: A passo di pecora. Il viaggio di una pastora transumante. Questa pastora è la stessa autrice Caterina De Boni, bellunese, che dalla nonna ha ereditato la passione per le erbe, fino ad ottenere una laurea in Tecniche Erboristiche, e dalla mamma quella per la lavorazione della lana di pecora. Basta cosi? Per niente. Ho scoperto che la De Boni suona diversi strumenti e per hobby è anche compositrice. Collabora inoltre con istituzioni nell’ambito della promozione e della tutela della flora del Friuli anche attraverso il pascolo delle pecore. Assieme ad Adriano Bruna e all’erborista Fabio Ambrosi ha dato vita al Giardino Botanico Alpino delle Dolomiti Friulane. E per finire, è tra le protagoniste dal docu-film sulle donne pastore In questo mondo (2018), di Anna Kauber, vincitore della 36ma edizione del Torino Festival come miglior docu-film italiano.

Tante le sue passioni, ma su tutte prevale la guida e cura delle greggi, come lei stessa racconta: «Per anni non mi sono considerata una pastora, forse per umiltà, forse perché oltre a pascolare le pecore ho sempre avuto altro da fare, sia per necessità che per diletto. Più che una pastora, mi sento una pecora. Sarà per quello che finché le mie pecore non hanno mangiato a sufficienza è il mio stomaco che si sente vuoto. Sarà per quello che quando una pecora partorisce capisco, guardandola negli occhi, se è il caso di intervenire per aiutarla. Riconosco una madre che ha perso il cucciolo in mezzo a migliaia di mamme che belano tanto per fare quattro chiacchiere tra loro. Sento se un agnello ha mal di pancia. Lo sento nella mia pancia, il dolore. Ma forse queste cose le capisco anche perché sono una donna, e una mamma. […] Per iniziare a considerarmi davvero una pastora mi ci è voluta una quindicina di anni al seguito di un esperto pastore transumante del nord-est che qui tutti chiamano “il pastore Serafino”. Un personaggio appartenente a quella mitica generazione di pastori nati tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ciascuno dei quali può vantare avventure più o meno leggendarie che vengono raccontate ancora nelle peggiori bettole del Triveneto. Servirebbe un libro intero per narrare le sue avventure. Non è stato facile apprendere la sua arte, ho imparato tutto “rubando con l’occhio”, non mi sono stati concessi favoritismi in quanto donna, sono stata messa alla pari di un qualsiasi operaio uomo».

Quello di Caterina, così amorevolmente descritto nel suo libro, è un mondo antico, rurale e anticonformista, popolato da gente che non ha voluto adeguarsi alla modernità, gente impegnata in lavori duri, umili e feroci, a stretto contatto con la natura e con la crudeltà della sopravvivenza. Un mondo che lei racconta attraverso la transumanza con un gregge di mille pecore, tre asini e due cani dalle pianure friulane alle Dolomiti di Cortina d’Ampezzo e ritorno. «La realtà che racconto è fatta di uomini schietti, che dicono pane al pane e vino al vino, non descrivo romantici panorami – puntualizza – ma luoghi vissuti calcando la strada e guardando per terra, consumando scarponi. Non parlo dei miei animali in termini poetici, ma piuttosto del ciclo della vita e della morte del quale tutti loro, compresi noi umani, facciamo parte».

In questa realtà, transumando, capitano a volte imprevisti capaci di far venire i capelli bianchi a chi, come la nostra pastora, ha la responsabilità di un gregge numeroso. Come in questo episodio, dopo aver avuto da un pastore le indicazioni per una “strada nuova” da percorrere: «Mi misi in marcia senza tanti pensieri. Ci sarà solo questa strada, mi dissi. Non feci in tempo a pensarlo che mi trovai davanti al primo bivio, al che iniziai ad avere qualche dubbio e una leggera tremarella alle gambe. E adesso? Con dieci mussi (asini), undici capre e millecinquecento pecore dietro, sbagliare strada non era una scelta contemplabile. Avevo il terrore che sbagliando avrei condotto le pecore verso un burrone e vi si sarebbero gettate tutte, perché loro non si fermano, dove va una le altre le seguono. Nella migliore delle ipotesi invece avrei distrutto uno dei tanti giardini all’inglese con orticello adiacenti le villette-vacanza. […] Nei tre secondi che ebbi per decidere, prima che arrivasse l’orda di pecore, optai per la strada che andava solo in su. Mi era già successo qualche volta di sbagliare, e non era stato affatto piacevole. […] Salimmo per quattro o cinque tornanti, attraversammo un fresco boschetto di abete rosso seguito da un pezzetto abbastanza ripido con dei tronchi schiantati dalle recenti burrasche. […] A un certo punto notai di lato alla strada un vecchio cartello di lamiera inchiodato a un albero. Il mio cuore sobbalzò […] su quel pezzo di lamiera qualcuno aveva scritto in verde: CATERINA DI QUA e una freccia verso destra. Il nodo che avevo in gola dalla partenza mi si sciolse e ripresi a respirare normalmente […] Chi l’aveva messa? Un angelo custode o un pastore un po’ burlone?».

Tutto decisamente affascinante per me che, avendo quasi sempre abitato in grandi città, pastori e greggi li ho visti solo di rado e da lontano, fantasticando forse un po’ troppo liberamente sui problemi di quell’esistenza sacrificata e solitaria, ma anche ricca di gratificazioni. E la lettura di A passo di pecora, accompagnata da bellissime foto in bianco e nero, è stata in questo senso una conferma e una scoperta. Con l’autrice, mi è parso di fare un viaggio ricco di emozioni e fatiche, di incontri, di parole sagge e, nelle soste, di bevute di vino e cantate accompagnate dalla sua allegra fisarmonica. Non per niente, avverte Caterina, «sono figlia di un musicista di strada mezzo scozzese e mezzo irlandese e il girovagare suonando è parte del mio essere. Non posso fare a meno di suonare come non posso fare a meno di stare con le mie pecore. Con la fisarmonica ho avuto il lasciapassare per entrare nel cuore della gente, per raccontare e farmi raccontare».

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