Una “prima mondiale” per la farmaceutica
Nel numero di marzo del 2023 avevamo parlato, nella nostra inchiesta, di una svolta per il settore farmaceutico: per la prima volta al mondo un ente no profit, Fondazione Telethon, stava per acquisire la licenza di produzione e distribuzione di un farmaco per una malattia rara che altrimenti sarebbe uscito dal mercato. Parliamo di Strimvelis, terapia genica per l’immunodeficienza Ada-Scid nata nei laboratori dell’Istituto San Raffaele Telethon di Milano e sviluppata da GSK, approvata nel 2016 e successivamente acquisita da Orchard Therapeutics. Nella primavera del 2022 quest’ultima ha annunciato il disinvestimento dai farmaci di questo tipo; prospettando non solo l’interruzione della produzione di Strimvelis, ma anche di altri progetti. Il 2023 di Fondazione Telethon è quindi stato segnato dall’impegno per riuscire a scongiurare il ritiro di questo farmaco. Tracciamo un bilancio di questa avventura con Stefano Benvenuti, responsabile delle relazioni esterne di Telethon.
Ci eravamo lasciati dicendo che c’era in campo il progetto di avviare la produzione di Strimvelis: ora a che punto siamo?
Siamo al punto che da metà luglio siamo ufficialmente titolari dell’autorizzazione per l’immissione in commercio di Strimvelis nell’Unione Europea e Gran Bretagna. Naturalmente rimane il nodo dei rimborsi: ogni cittadino ha sì il diritto di scegliere il Paese in cui curarsi all’interno dell’Ue a spese del proprio, però se il rimborso viene riconosciuto solo a posteriori è evidentemente molto difficile per il singolo riuscire ad anticipare la somma necessaria [parliamo di cure che possono arrivare a cifre a sei zeri, ndr]: normalmente ciascuno Stato autorizza preventivamente il trattamento, però a volte questa autorizzazione viene negata il ragione del fatto che il prezzo del farmaco non è stato concordato con il Paese in questione. Si cerca di risolvere caso per caso, anche con l’aiuto delle associazioni dei pazienti e di reti come Eurordis. Con i Paesi extra Ue accade che venga richiesto di registrare il farmaco nello Stato in questione: anche qui si cerca di risolvere caso per caso, dato che parliamo di malattie rare e quindi i pazienti sono pochissimi. Attualmente stiamo somministrando Strimvelis al San Raffaele di Milano, poco distante dallo stabilimento dove Gsk prima e Orchard noi tuttora lo produciamo: grazie all’accordo tra Fondazione Telethon e Orchard la produzione non si è mai interrotta. Al momento abbiamo due potenziali pazienti, e quando quest’intervista verrà pubblicata ne sarà probabilmente già stato trattato uno, oltre alla decina già trattati.
Nel mondo continuano però ad esserci casi di aziende che cessano la produzione di farmaci per le malattie rare, o che li immettono in commercio solo negli Stati dove ottengono accordi economici vantaggiosi: è il caso ad esempio dell’americana BlueBirdBio e della terapia genica per la beta-talassemia, non disponibile in Europa per questo motivo. Che cosa può fare una realtà come Fondazione Telethon in questi casi?
Come Fondazione Telethon abbiamo una terapia per la beta-talassemia in corso di sviluppo, sempre al San Raffaele. Certo se un domani BlueBirdBio venisse a domandarci se vogliamo acquisire la licenza del suo farmaco per l’Europa potremmo parlarne, ma non lo vedo come scenario molto probabile. Va infatti messo in chiaro innanzitutto che siamo di fronte ad una caso del tutto diverso da quello di Strimvelis: non un’azienda che non intende più produrre un farmaco, ma un’azienda che lo sta facendo regolarmente e che per interessi economici ha deciso di non venderlo qui. Per cui su questo caso specifico abbiamo le mani legate, dato che la proprietà del tutto resta a BlueBirdBio. Con Strimvelis si è aperta questa possibilità perché l’accordo siglato con Gsk prima e Orchard poi prevedeva che se loro avessero abbandonato la terapia messa a punto da noi avrebbero dovuto “restituirla” nelle nostre mani: in questo senso, interlocuzioni e vere e proprie alleanze con le aziende farmaceutiche sono cruciali sia per l’accesso ai farmaci che per consentire, in extrema ratio, un intervento come quello che abbiamo fatto noi come ente filantropico in caso di terapie non economicamente sostenibili dal lato dell’azienda. Va detto anche che è in forte sviluppo anche l’ambito della responsabilità sociale d’impresa, strada però percorribile in maniera agevole solo dalle imprese grosse che marginano su altri farmaci: il che spesso non è il caso delle terapie avanzate.
Fino a che punto, quindi, la farmaceutica può essere “no profit”, data la necessità di grossi capitali di cui questo mondo generalmente non dispone?
Purtroppo la situazione per le terapie avanzate, se guardiamo alle aziende, non è buona: la stessa Orchard si sta tirando indietro anche da altre terapie, oltre che da Strimvelis. Cercheremo sempre di intervenire quando possibile, ma il panorama non è del tutto rassicurante per diverse ragioni. La prima è che i sistemi sanitari sono lenti nell’aggiornare i loro modelli di pagamento in funzione di queste terapie, il che rende più difficile raggiungere con gli Stati un accordo sui prezzi: abbiamo sistemi pensati per le cronicità, per pagare poco nell’arco di tanto tempo, mentre le terapie avanzate richiedono sì un esborso enorme ma fatto una volta per tutte. La seconda è che attualmente lo sviluppo di terapie è finanziato da capitali che richiedono ritorni alti, e quindi prezzi finali elevati, che non sempre i sistemi sanitari sono disposti a sostenere: vanno quindi cercati modelli di finanziamento alternativi, e in questo senso l’alleanza tra profit e no profit può essere una risposta. Parliamo di enti finanziatori con finalità diverse dal venture capital, come enti parapubblici o venture philantropy[“filantropia di rischio”, ossia un investimento analogo a quello del capitale di rischio ma fatto da enti filantropici, ndr], che pur non facendo beneficenza puntano comunque a ritorni inferiori. Credo che esista uno spazio intermedio tra la filantropia pura e il profitto, perché né l’uno né l’altro bastano in sé stessi: dobbiamo trovare un equilibrio che garantisca la sostenibilità del sistema.
Avete ricevuto riscontro da parte delle istituzioni in merito al lavoro svolto? Che cosa chiedete loro?
Abbiamo ricevuto riscontri molto positivi. Una delle nostre preoccupazioni era che fosse letta come operazione commerciale che snaturava la Fondazione, ma tutti hanno capito. Dall’apprezzamento però bisogna passare a trovare soluzioni per il futuro: ad esempio chiediamo un unico accesso a livello europeo per le terapie avanzate, così da non dover replicare tutta la procedura in ogni Paese. Un ulteriore passaggio discusso a livello internazionale è il mutuo riconoscimento da parte delle diverse agenzie regolatorie: ripresentare ogni volta il dossier di approvazione per una malattia rara è difficilissimo, perché significa magari dover rispettare criteri diversi, e su ricerche che per loro stessa natura coinvolgono pochissimi pazienti e da cui è quindi più difficile ottenere i dati necessari. Espletare il procedimento una volta per tutte sarebbe un grandissimo aiuto.
Quali sono le sfide e le prospettive per il futuro?
La principale prospettiva è quella di fare in modo che questo modello diventi un esempio per altri nel mondo, dato che, come dicevamo prima, la necessità di trovare una via diversa rimane: non ci sono molte altre realtà che potrebbero farlo, ma esistono. Portando avanti questo lavoro vogliamo dimostrare che si può fare, e convincere altri a fare lo stesso quando possibile. L’obiettivo di qui a un anno-un anno e mezzo è rendere più trasparente il sistema: ad esempio rendere pubblici i costi sostenuti per produrre e mantenere sul mercato Strimvelis, cosa che nessuna azienda farmaceutica fa davvero. Per questo è comprensibile che, quando si arriva a negoziare i rimborsi dei farmaci con gli Stati, in assenza di questa trasparenza ci sia diffidenza. Credo che questo aiuterebbe il dibattito, sgombererebbe il campo da molti preconcetti su entrambi i fronti, e fornirebbe dei dati di riferimento per una discussione più serena; superando così gli ostacoli che ci hanno portati fino a qui, e che speriamo non abbiano più a ripetersi.