Cina: come cancellare la cultura tibetana
La questione dei diritti umani resta uno dei nodi fondamentali che rendono problematici i rapporti fra mondo occidentale e dragone cinese. La questione è uno dei terreni più scoscesi sul quale deve camminare chi cerca di regolarizzare i rapporti non sempre facili fra il gigante asiatico, che rivendica ormai un’autorità su tutto il panorama geopolitico mondiale, e Paesi come gli Stati Uniti, ma anche Inghilterra, Francia, Germania e, sia pure in modo diverso, Giappone e India.
In quanto a diritti umani dobbiamo essere sinceri: nessuno può ergersi a paladino della loro difesa. In Europa, l’esempio più evidente è la questione migratoria, affrontata diversamente dai vari Paesi, a seconda della loro posizione geografica, ma comunque gravemente discriminatoria. Gli Stati Uniti non possono affermare di avere la coscienza pulita in quanto a diritti umani, sia all’interno, con la polarizzazione politica e sociale che porta ad una crescente discriminazione di alcune fasce della popolazione, sia nelle molteplici sistematiche interferenze imposte ad altri Paesi.
Resta, comunque, il fatto che in Cina due gruppi etnico-religiosi ben definiti stanno da tempo soffrendo una discriminazione costante e, anche, violenta. Si tratta dei musulmani Uiguri che vivono nella regione occidentale dello Xinjiang, che da anni soffrono una discriminazione sistematica a livello etnico e religioso. Il governo di Pechino ha, nei loro confronti, una politica che sembra piuttosto chiara: eliminare la cultura uigura e impedire la pratica dell’islam. Si calcola che circa un milione di uiguri siano prigionieri in campi di internamento o detenzione, nell’ambito di questa operazione. Un secondo gruppo etnico e culturale che da sempre è preso di mira dalle autorità cinesi è quello tibetano. Sebbene la questione risalga ai giorni in cui, nel 1950, le armate di Mao entrarono in Tibet, costringendo molti, fra cui il Dalai Lama, a fuggire e ad accogliere l’invito del governo di Nuova Delhi a rifugiarsi in India, negli ultimi tempi si è intensificata l’azione di cinesizzazione dell’intero altopiano.
Dopo decenni di trasferimento di popolazione cinese in Tibet e di sviluppo globale sul grande altopiano con la costruzione di autostrade e una rete di comunicazioni modernissime provviste di tunnel futuristici e anche di ferrovie ad alta velocità, ora si sta lavorando a livello di “scuole residenziali” che offrono la possibilità di indottrinare i giovani per assimilarli alla cultura Han, quella dominante nell’immenso Paese. La metodologia ricorda quella impiegata nelle analoghe scuole residenziali di Australia, Usa e Canada, dove in passato sono morti migliaia di bambini delle popolazioni native, e dove coloro che sono sopravvissuti hanno dovuto arrendersi alla cultura “cristiana e anglofona” imposta alle nuove generazioni, che hanno finito per dimenticare le proprie radici: un trauma ancora vivissimo nella mente e nello spirito di milioni di queste persone nei Paesi appena menzionati.
Le autorità del Paese asiatico hanno sempre considerato il crollo dell’impero sovietico come un fallimento della Russia nel processo di russificare le repubbliche autonome. Sebbene, fin da allora la Cina fosse convinta della necessità di cinesizzare le minoranze per non finire nella trappola in cui era finita l’Unione Sovietica, solo con Xi Jinping si è cominciato a sistematizzare questi processi di cinesizzazione delle minoranze. Xi ha fatto della cinesizzazione delle etnie, delle culture e delle religioni uno dei capisaldi della sua politica interna.
Si calcola che siano circa un milione – anche se i numeri non sono confermati – gli studenti tibetani ospiti di scuole residenziali. Al loro interno le autorità governative hanno approntato programmi di studio e formazione che mirano a spezzare i legami che questi bambini e ragazzi possono avere, oltre che con la propria famiglia, anche e soprattutto con la propria etnia, cultura e religione (i tibetani sono buddhisti vajrayana). Ovviamente la decisione di frequentare queste scuole residenziali non è libera come non lo era per quelle, al loro tempo, dell’Australia e del Canada. I bambini, spesso vengono costretti a lasciare le proprie case e sono portati nelle scuole in tenera età – a quattro anni sono già lontano dalle loro famiglie. Al centro del sistema che mira alla cinesizzazione di questa parte della Cina, sta la questione linguistica.
L’aspetto religioso, infatti, è stato normalizzato grazie ad interventi più o meno chiari di infiltrazione e di sorveglianza, come con tutte le altre religioni all’interno del Paese. L’idioma, invece, fra tutte le realtà culturali dell’altipiano tibetano, rappresenta l’aspetto decisivo, essendo ciò che realmente unisce tutte le varie comunità e gruppi. La lingua tibetana non ha nulla in comune con il mandarino ed è un elemento, quindi, che garantirebbe la continuazione di una precisa identità anche in futuro. È questo l’aspetto che si cerca di sostituire fin dall’inizio all’interno delle scuole residenziali.
Dopo decenni di trasformazione estetica ed infrastrutturale del Tibet e il trasferimento di molti cinesi di etnia Han sull’altipiano tibetano, quello che ora appare il metodo sistematico di “inculturazione Han coatta” rappresenta la svolta decisiva per la trasformazione definitiva del Tibet, che il governo di Pechino ha sempre considerato parte della grande Cina.
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