Un poetico atto danzato a colei che non c’è più

Lo spettacolo “Irene, è dedicato a una persona cara e a coloro che hanno saputo volerle bene. Con queste parole il danzatore e coreografo Alessandro Marzotto Levy, affronta la perdita. In scena a Firenze, al festival “La Democrazia del corpo”
ph Bianca Batistini

È un atto d’amore, un inno danzato a chi non c’è più, a chi ha lasciato tracce indelebili nell’anima, a chi continua a nutrire il vivere quotidiano e l’immaginario di un uomo la cui danza celebra la possibilità di perpetuare un ricordo che si fa presenza. Cercare l’assente. Sentirne la presenza. Dentro e fuori di sé. Avvertirne, nell’aria, i segni, la voce, il corpo. Scrutare attorno gettando lo sguardo oltre il visibile. E attendere un cenno. Rovistare a terra, tra quella paglia sparsa che attutisce i passi del cammino e della corsa, e trovare oggetti nascosti e ricordi che la mente e il cuore hanno custodito. Aprire una scatola e tirarne fuori brandelli di memorie, piccoli fogli bianchi ma senza parole scritte, inutilmente attese. E ritornare a cercare, con lena, con impazienza, con cura.

In Irene, di Alessandro Marzotto Levy, c’è un tumulto di emozioni, trattenute, rabbiose, piene di tenerezza, di gioia e follia, di incredulità, in questo corpo a corpo con l’invisibile che il coreografo e performer fiorentino imbastisce nel suo intenso assolo (a Firenze, Cango, Cantiere Goldonetta, per il festival La Democrazia del Corpo di Virgilio Sieni).

Con una scrittura coreografica minimalista, astratta ma pregna di senso, Marzotto Levy nell’atto dell’elaborazione del lutto annulla il tempo e la distanza, riportando, nel presente e nel luogo del possibile, cioè il teatro, la scomparsa della persona cara (che ha il nome del titolo) facendosi carico di un malessere condiviso contrassegnato dagli sbalzi d’umore di lei, dagli instabili equilibri, da fughe e ritorni, e da tutto quel mondo reale o immaginato che le ha segnato l’esistenza. Ed è di una bellezza struggente quel tentativo goffo del danzatore di voler provare il male fisico dei piedi calzando con cura le scarpette a punta da lei indossate, tentare dei timidi passi e rimettere nello scrigno quell’oggetto da ballerina.

ph Piero Tauro

Nell’evocarla sul palcoscenico ricoperto di paglia e immerso in un tessuto sonoro palpitante (musica di Flavia Passigli), Marzotto Levy innesca una ritualità consapevole disegnando un fluire di gesti che sembrano dare forma fisica a Irene. C’è un vagare solitario, uno smarrimento sgomento, uno sconforto che sembra schiacciarlo. In quel lento incedere, scrutare, sentire, il suo diventa un corpo “attraversato”, vibrante di continui impulsi interni che si irradiano in linee tese, in posture ondivaghe, in cadute e in rapimenti visionari. Lo spazio onirico si riempie di scatti improvvisi girando lo sguardo, di segmenti che le braccia e le mani tracciano nell’aria, di richiami a storie, canzoni e momenti vissuti che i gesti suggeriscono e sembrano sorprenderlo. Fino a che esce di scena sul suono della sua voce gioiosa.

Ritornato in Italia dopo un lunga permanenza all’estero dove si è formato come danzatore e coreografo, oggi anche insegnante, prima alla Rambert School di Londra, successivamente in Spagna alla IT Dansa, con passaggi in Olanda e Germania e ritorno in Inghilterra con una sua compagnia, la Impermanence Dance Theatre dove sperimenta la cifra autoriale, Marzotto Levy nel creare questo struggente, poetico assolo vincitore di DNAppunti coreografici 2022, firma un lavoro ispirato, che rimane fortemente impresso.

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