Di cosa è fatta la speranza
Il 15 ottobre 1943 Cicely Saunders, allieva infermiera della prestigiosa Scuola sperimentale per Infermiere “Nightingale” di Londra – una spilungona a cui le colleghe hanno appioppato il nomignolo di Giraffa – raggiunge un ospedale dove inizia il servizio ai feriti reduci dai fronti di guerra. Tenuta a fare solo ciò che i medici prescrivono, durante le sue notti in corsia la giovane assiste impotente alla morte tra sofferenze indicibili di tanti soldati suoi coetanei, ognuno dei quali – lei si rende conto – costituisce per chi lo ha in cura uno scacco professionale.
Così inizia Il colore della speranza (Bompiani), secondo romanzo di Emmanuel Exitu, autore televisivo e drammaturgo che dopo aver annunciato a inizio libro: «Quest’opera è ampiamente ispirata a eventi reali della vita di Cicely Mary Strode Saunders, ma contesto, personaggi, avvenimenti, dialoghi e altri elementi sono stati tessuti, ordinati, sintetizzati e utilizzati a scopo narrativo», precisa alla fine: «Ho lavorato da scrittore, e quindi non ho realizzato la cronaca di una vita, ma ho partecipato a una vita, quel particolare tipo di vita che si chiama romanzo, nel quale occorre concepire la vita secondo lo spirito del personaggio e poi partorirla dialogando con lo stesso personaggio: immedesimandosi, abbandonandosi e lasciando che diventi parte di te».
Dopo 420 pagine che scorrono senza quasi accorgersene, posso confermare quanto affermato da Exitu: grazie all’arte narrativa dell’autore bolognese, ho conosciuto una Cicely “viva”, che ora fa parte anche di me. Mi chiedo se avrebbe conseguito lo stesso effetto una biografia del personaggio. Ma seguiamo la vicenda.
Poiché a causa di un problema alla colonna vertebrale aggravato dallo sforzo fisico in corsia la Saunders deve interrompere questa esperienza dura ma vissuta con dedizione, per non abbandonare la cura dei malati – chi è stata infermiera una volta lo è sempre – si ricicla come assistente sociale sanitario presso il Royal Cancer Hospital, per poi entrare nel 1947 a far parte dell’équipe dello St. Thoma’s Hospital, specializzato nel trattamento dei pazienti oncologici. Intanto, atea qual è, ha seguito con interesse le conferenze di Clive S. Lewis, il celebre convertito autore delle Cronache di Narnia e di altri titoli di successo.
La sua ricerca spirituale prosegue fra alti e bassi fino alla conversione, aderendo alla Chiesa anglicana: «Ha tutto chiaro in testa: crede che un Dio esiste, lo crede come qualcosa di naturale, come si crede all’esistenza di una montagna; sa perfino che è un Dio speciale, che si è fatto carne per noi eccetera. Tutto, sa tutto. Ma sa pure che saperlo soltanto con la testa con cambia un accidente. È nel cuore che devi saperlo, nel cuore! […] Sapere solo con la testa è una luce senza fuoco, non ti scalda. Invece devi poterlo toccare, Dio, non solo vederlo. […] Devi sentire il cuore di Dio che ti batte contro attraverso la pelle, che ti vibra sul petto».
A contatto con persone sole ed emarginate, Cicely ha cominciato ad annotare i tentativi e i fallimenti, le intuizioni e le buone pratiche che consentono di lenire la sofferenza di chi non è più guaribile. È il caso anche di David Tesma, un ebreo polacco agnostico affidato alle sue cure, cui non resta molto da vivere a causa di un tumore. E quando tra i due sboccia l’amore, il primo, questo fiore tardivo li rende felici e al tempo stesso affranti. David poi vorrebbe morire in una vera casa, non nella squallida stanza visitata dai topi dove sta spegnendosi.
Impossibile per Cicely realizzare il sogno di lui, non c’è più tempo… Ma farlo per altri, giunti come il suo David al capolinea della vita? Sì, è questo che lei scopre di volere fortemente, a questo si sente chiamata. Ed è questa illuminazione a farle superare il trauma per la perdita dell’amato, che la neoconvertita ha aiutato a morire con serenità e in pace con Dio; come pure l’incomprensione del padre per la sua decisione, lasciato un posto sicuro, di studiare Medicina. Si rende conto, infatti, che per realizzare quel progetto non basta più il suo diploma d’infermiera: per essere autorevole le occorre anche quello di medico.
Tra l’altro, caparbia qual è, Cicely già da tempo è riuscita a trovare l’ortopedico che l’ha rimessa in sesto riguardo ai suoi problemi alla schiena. Una volta conseguita la laurea, nel 1967 aprirà il primo moderno hospice: non un posto dove si va a morire, ma dove il malato terminale, aiutato dalle cure palliative, può vivere fino all’ultimo istante con dignità. L’aveva spiegato così al suo David: «Ci vuole una casa-ospedale: una casa specializzata come un ospedale e un ospedale caldo come una casa, capisci cosa intendo?». E lui le aveva lasciato tutti i suoi averi, 500 sterline, per contribuire a realizzare il progetto di questa casa, di cui voleva essere «una finestra».
Forte dell’esperienza fatta presso ospedali e case di accoglienza per malati terminali, Cicely è sempre più convinta che «i morenti sono stati dimenticati dalla medicina e per la scienza è una vera sconfitta», che «prima di ogni terapia, la medicina è uno sguardo all’altro pieno di rispetto». E orientata dalla sua forte fede religiosa, ha compreso che non è sufficiente alleviare il dolore fisico con medicinali, occorre anche soddisfare alle esigenze emotive e spirituali delle persone ricoverate. Perché «la speranza è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere».
Per il suo operato Cicely Saunders ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti, tra i quali il Premio Templeton nel 1981. È morta di cancro nel 2005 all’età di 87 anni, presso il St. Christopher’s Hospice da lei stessa fondato. Le norme seguite in questo primo “ospedale-casa”? Ambiente ricco di calore umano e comprensione psicologica; cure personalizzate e fornite da un adeguato numero di infermieri qualificati; farmaci somministrati prima che il dolore si acuisca. L’obiettivo: liberare la persona ammalata dalla sofferenza e dal dolore, consapevoli che esso non ha solo una dimensione fisica, ma anche emotiva, sociale e spirituale. E senza trascurare l’assistenza alle famiglie dei pazienti e l’aiuto ad elaborare il lutto per chi resta.
Tutt’oggi le procedure seguite dalla Saunders per il suo Hospice sono considerate dall’Organizzazione mondiale della sanità il punto di riferimento per migliorare la qualità della vita dei malati terminali. Molte foto di lei anziana la ritraggono sorridente al capezzale di qualche paziente che sembra rianimarsi al suo calore. Quasi una sorta di Madre Teresa britannica.
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