L’informazione in tempo di guerra, intervista a Nico Piro
Ho contattato Nico Piro, giornalista Rai inviato del Tg3, mentre era su un’imbarcazione di una ong che salva i migranti in mezzo al mare Mediterraneo. È fatto così: sfida il pericolo. Che sia la guerra in Afghanistan, dove è di casa come inviato speciale, la zona rossa durante la pandemia o il mondo dell’informazione che ha accusato, con un suo libro e in tanti interventi, di essere permeato da un “pensiero unico bellicista” procurandosi, in tal modo, molte accuse e polemiche. Tra le sue poliedriche attività rientra anche la direzione e l’ideazione di Mojo Italia, il primo festival del Mobile Journalism in Italia.
Ci avviamo al secondo inverno di guerra in Ucraina. Che idea complessiva hai maturato a partire dall’invasione decisa da Putin il 24 febbraio del 2022? Come è cambiato il mondo in questo periodo?
Purtroppo i fatti non mi hanno consentito di cambiare idea rispetto a quanto è stato chiaro sin dall’inizio. Le guerre si trasformano in occasioni per condurre operazioni di varia natura, politiche quanto industriali. Questo conflitto è servito a due cose principalmente: da un lato ha messo l’industria bellica in condizione di fare affari da record, tornando a produzioni (vedi batterie SAM antiaeree, missili terra-terra a medio raggio, colpi d’artiglieria di grosso calibro) messe da parte nel ventennio delle guerre al terrorismo, con il bonus di essersi persino ripulita l’immagine, come se produrre bombe fosse presidio di democrazia. Dall’altro ha consentito di riallineare l’Europa alle posizioni americane, in qualche modo “rettificando” quello scollamento che ci fu durante l’invasione americana dell’Iraq del 2003 e altri allontanamenti, di carattere economico, verso Cina e Russia. Il riallineamento ha previsto anche un massiccio cambio di paradigma nel dibattito pubblico e nell’informazione.
Come ha inciso, a tuo parere, questo cambiamento così profondo nel mondo dell’informazione?
Il pensiero critico è stato abolito e demonizzato, l’informazione è diventata “di guerra”, la voce del nemico è stata cancellata, la voce dell’amico (alleato) è diventata verità incontestabile, certi giornali si sono ridotti a cataloghi di armi smarrendo il loro dovere di lavorare sulla memoria breve (per quella lunga ci sono gli storici). Basta fare una ricerca on line su “l’arma che cambierà il conflitto” e frasi analoghe. È un titolo che si è ripetuto ossessivamente sui giornali italiani, prima con i javellin, poi con gli himars, poi con i leopard, gli abrams, gli F15. Ovviamente non è avvenuto, il conflitto non l’hanno cambiato, ma il titolo ha spacciato la temporanea illusione che la guerra fosse vicina alla fine, alleviando le ansie della gente. Sarebbe stato più corretto aggiungere un “forse” al cambierà e poi tornare a vedere mesi dopo cosa era effettivamente avvenuto. Quantomeno per difendere la residua credibilità della nostra malandata informazione.
Nel mio libro “Maledetti pacifisti” parlo per esempio delle diagnosi di malattie varie fatte a Putin, per mesi, analizzando video social (prodigi di una favolosa telemedicina sconosciuta ai medici), un altro esempio di informazione ansiogena e senza memoria. La stessa che ha compilato vergognose liste di “disinformatori” senza uno straccio di prova, ma ciononostante sbattendo i fotosegnalati in prima pagina che manco dopo una retata di mafia, anche perché almeno quella avrebbe avuto una base giudiziaria e di garanzia.
Anche l’Ucraina come l’Afghanistan è destinata a non fare più notizia per il precipitare improvviso degli eventi in Terra Santa?
A mio avviso l’Afghanistan è l’archetipo di tutti i conflitti contemporanei, a prescindere dalle modalità con cui si combattono, che si tratti di guerre, di guerriglia o di conflitti d’attrito. L’Afghanistan è stato dimenticato più volte nel corso di vent’anni di battaglia, sin da due anni dopo l’invasione per via del concomitante intervento in Iraq, poi al ritiro degli occidentali alla fine del 2014, infine subito dopo la caduta di Kabul, nonostante la frase “non lasceremo nessuno indietro”. L’Occidente risolve i problemi irrisolvibili con l’oblio, è una tecnica consolidata. Sta già accadendo con l’Ucraina, di cui non si parla più. A guardare tg e leggere giornali, la guerra sembra finita. Non lo è, ma nell’era dell’iperinformazione l’ultima notizia scaccia la penultima: il Medio Oriente ha cancellato l’Ucraina nella gerarchia dell’informazione. Un oblio che arriva nel momento più opportuno, perchè consente ai distratti politici occidentali e agli opinionisti con l’elmetto di non fare i conti con la conclusione della controffensiva ucraina, che è risultata un fallimento totale nonostante le armi di cui abbiamo imbottito quel Paese. Sarebbe questo il momento di prendere atto che anche in Ucraina la guerra, come mezzo di risoluzione dei problemi, ha fallito e invece non lo facciamo perché siamo impegnati a tifare guerra, altrove.
Hai denunciato l’affermarsi di un pensiero unico sulla legittimità e necessità della guerra. È un fenomeno che riguarda in particolare il nostro Paese?
Dall’estate del 2022 ( “Maledetti pacifisti” è uscito a maggio) ho attraversato l’Italia per oltre 75 date, presentazioni del libro, ma soprattutto occasioni per parlare di guerra e di pace. Mi hanno colpito perchè sono state la conferma che una vasta fetta di italiani non è rappresentata né dall’informazione né dalla politica, del resto i dati sull’astensione sono sempre più gravi. Sono persone che chiedono pace e chiedono all’informazione e alla politica di essere critica sulla guerra, ma non trovano voce. Sono persone vittime dello stigma proiettato a vari livelli sui pacifisti. Mi colpisce al termine delle mie presentazioni, il ripetersi della frase: “Grazie mi sono sentita-o meno sola, meno solo” – proferita da qualcuno dei presenti. Si passa dall’essere filo-putiniani all’essere anti-semiti, in ogni modo “amici del nemico”. È un clima soffocante di cui l’informazione è pienamente responsabile, forse più che la politica, visto che l’informazione dovrebbe essere in primis critica mentre la politica è dichiaratamente di parte. Gli opinionisti con l’elmetto ormai superano la satira degli anni d’oro dando dell’imperialista russo e dell’antisemita al papa, ma non fanno ridere.
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