Batte ancora il cuore di Ken Loach
«Finchè ho il cuore che batte, non voglio perdere la speranza». Dice così la giovane siriana Yara (Ebla Mari, perfetta, 26 anni ), profuga con la famiglia in un paesino di ex minatori nel nord-est dell’Inghilterra. «Ma per avere speranza ci vuole fede», soggiungerà. E ce ne vuole per lei e le altre famiglie rifugiate dalla guerra e dalla dittatura in questa località un poco smarrita, dove la gente – anche i ragazzi – guarda gli stranieri con sufficienza ed ostilità. C’è l’ultimo pub “La vecchia quercia” a far da ritrovo quotidiano. Lo gestisce TJ Balantyne (Dave Turner) un uomo solo, dal passato doloroso – lasciato dalla moglie, in lite col figlio, salvato dal suicidio da un cagnetta che ha adottato.
L’uomo fatica a mantenere in vita il pub, non ha soldi, si è indurito. Eppure, ha un cuore. Il paese non va bene economicamente, anzi sembra peggiorare con l’arrivo degli stranieri. Ma TJ incontra Yara, che nasconde il dolore per il padre in carcere, fa foto alla gente del paese, sorridente e positiva. Convince TJ ad aprire una sala del pub e a renderla un punto d’incontro fra le due comunità. Nonostante le ostilità, la cosa funziona e lega le due comunità. Lui però è facile a scoraggiarsi: gli uccidono la cagnetta, fanno un attentato al salone e lui ripensa al suicidio. Non regge più alla sconfitta. Tuttavia, alla fine resiste e il miracolo è l’incontro fra le due comunità nella gioia e nella sofferenza, aperte ad una possibile speranza luminosa del vivere insieme.
Leggerezza, delicatezza, dramma accennato e bellissima interpretazione formano il centro di un racconto in cui il regista, sempre attento alla gente umile e dolente, non ha timore di lasciare andare il cuore. Dipinge un piccolo mondo – che è poi metafora del grande mondo – dove egoismo e razzismo sono presenti insieme allo sconforto per un passato che si riteneva positivo e ad un futuro nebuloso. Con dialoghi scarsi e immagini di volti espressivi, con scene sfumate veloci, incisive, Loach racconta una storia che è storia di gente fragile, impaurita, sola e bisognosa in effetti di amore al posto della indifferenza e della chiusura.
Il film è una riflessione certamente sul potere, sulla guerra, ma soprattutto sulla solidarietà umana – «che non è beneficenza» – che nasce dal basso più che da chi comanda. Il regista “vecchia quercia” del cinema inglese lotta ancora una volta in favore della dignità umana e ci riesce in un finale aperto alla speranza. Imperdibile.