30 anni fa l’esplosione di Chernobyl

La più grande tragedia dello sfruttamento energetico dell’atomo. La metafora, o l’icona, del tracollo del socialismo reale, cioè della menzogna eletta norma sociale
Ucraina Chernobyl © Michele Zanzucchi 2009

Era l’una e ventitré minuti del 26 aprile 1986. Un’incredibile serie di negligenze provocò una catastrofe ambientale senza precedenti: nel corso di un test sul reattore n° 4, il personale si rese responsabile della violazione di una serie incredibile di norme di sicurezza, portando a un incontrollato aumento della potenza e della temperatura del nocciolo del reattore: si determinò la scissione dell’acqua di refrigerazione in idrogeno e ossigeno a pressioni tali da provocare la rottura delle tubazioni del sistema di raffreddamento del reattore. Il contatto dell'idrogeno e della grafite incandescente delle barre di controllo con l'aria, a sua volta, innescò una fortissima esplosione, che provocò lo scoperchiamento del reattore e di conseguenza causò un vasto incendio. Una nuvola di materiale radiattivo fuoriuscì dal reattore e ricadde intorno alla centrale, contaminando chilometri e chilometri quadrati di campagna , provocando l’evacuazione di più di 300 mila persone. Nubi radioattive giunsero fino all’America settentrionale. I morti? Mai accertati e mai accertabili. Le stime passano dai 65 morti immediati sul posto ai 3 milioni per varie neoplasie sorte in seguito alle radiazioni assorbite.

 

Tre momenti mi hanno messo in contatto con la tragedia di Chernobyl: nel 2007, a Nalcik, capitale della repubblica ciscaucasica della Cabardino-Balcaria. Con amici, incontrai Tamara, cabarda, malata nella sua decorosa camera da letto. Aveva subito un ictus due anni dopo la morte del figlio, deceduto per una leucemia presa a Chernobyl, dove era stato mandato a lavorare per un anno e mezzo, come militare. Tamara mi mostrò una foto del figlio: «Non ha voluto dirmi che era ammalato – mi disse –. Finché un giorno ho visto che prendeva delle medicine. Ho scritto il nome su un foglietto e sono andata dal medico per sapere di cosa si trattasse. L’ho saputo, e ho pianto. Ma l’ho anche ammirato. Dio m’ha dato questo figlio meraviglioso, e Dio me l’ha tolto. Lodato sia il nome del Signore».

 

Il secondo momento fu una visita, tre anni più tardi, sul sito della tragedia. Scrissi all’epoca sul mio taccuino: «Salgo scale ridotte a moncherini di gradini ricoperti di calcinacci, fotografo maschere antigas abbandonate qua e là, quaderni squadernati e librerie svuotate dei loro libri, vetri frantumati e maioliche sbeccate. Le iscrizioni umane assumono l’insolita funzione di memoriale dell’inutilità. E medito. Medito sul transeunte e sull’imperituro che qui a Chernobyl e Prip’at non possono che andare a braccetto per il misterioso esercizio mal gestito della libertà umana. Non del fato, non del destino».

 

Il terzo momento è stata la lettura del capolavoro della Premio Nobel per la letteratura, Svetlana Aleksievic, Preghiera per Chernobyl,un libro che racconta la gravità di quanto accaduto, l’incredibile catena di uccisioni, menzogne e pusillanimità che hanno reso possibile la mattanza, che numericamente ha assunto dimensioni bibliche perché le più ovvie misure di prevenzione contro le radiazioni vennero ignorate. Un affresco straordinario, in cui la Aleksievičha dato la parola solo agli sconfitti.

 

Non si deve dimenticare: Chernobyl è la tragedia della menzogna maturata sulla degenerazione del socialismo reale.

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