L’”Ottavio”, piccolo libro gentile
È pervenuto fino a noi per puro caso, aggiunto per errore da un amanuense dell’Alto Medioevo in coda all’opera di un altro autore. Parlo dell’Ottavio (Octavius) di Marco Minucio Felice, uno dei primi testi apologetici (se non addirittura il primo) scritti dai cristiani per difendersi – specie in epoche di persecuzioni – dalle accuse rivolte loro dai pagani.
Datato tra la fine del II secolo d. C. e l’inizio del III sul modello classico dei dialoghi di Platone e Cicerone, ma con i contenuti della nuova fede, viene ora riproposto in traduzione più appetibile ai gusti moderni dall’Editrice Ares col sottotitolo Dialogo su Dio e sull’amicizia.
Il curatore Carlo Maria Simone elenca nell’Introduzione le caratteristiche di quest’opera che ne fanno un unicum nel panorama dell’apologetica cristiana: «È l’unica apologia […] che non voglia fare a pugni con i pagani, ma che tenda loro una mano […] l’unica a essere in forma di dialogo», che «per sua stessa natura è una forma letteraria conciliante. Invita a considerare le opinioni dei vari personaggi in causa (due, nel nostro caso: il pagano Cecilio Natale e il cristiano Ottavio Gennaro; il terzo, Marco Minucio, ha il compito di fare l’arbitro) e a trarre in armonia le conseguenze, da premesse polifoniche».
Come ulteriore novità aggiungerei la cornice stessa in cui si svolge il dialogo: non il giardino o la biblioteca di una domus di lusso, ma il lido di Ostia, primo porto ed emporio dell’Impero romano, città multietnica in cui confluivano tutti i popoli del Mediterraneo e tutti i culti erano rappresentati. Lì i tre passeggiano piacevolmente, accompagnati dal respiro del mare in una splendida giornata d’autunno. Celebre la descrizione dei bambini sul litorale che gareggiano a lanciare in acqua dei sassi a pelo d’onda.
«Un piccolo libro gentile» – così lo definisce Silvia Stucchi, docente di Letteratura latina all’Università del Sacro Cuore di Milano – che sa di salmastro e di brezza marina, dove amici con idee opposte, conversando senza acrimonia, cercano di chiarirsi le idee riguardo alla religione: quasi un modello per questi nostri tempi funestati da guerre proprio per incapacità di dialogare.
Dell’autore Marco Minucio Felice è presto detto, dato che di lui si sa ben poco. Vissuto a cavallo tra il II e il III secolo d. C., molto probabilmente nordafricano come gli altri due interlocutori, intraprese la carriera avvocatizia a Roma.
Durante una sosta dei tre sopra un frangiflutti eretto a protezione delle mareggiate e dei bagnanti, il dialogo prende avvio da un fatto casuale: l’omaggio che poco prima Cecilio ha reso ad una statua del dio Serapide, suscitando così il rimprovero di Ottavio. Come risposta, il giovane pagano enumera con impeto e indignazione tutte le turpitudini (incesti, sacrifici rituali di bambini…) che ha sentito raccontare sui cristiani, sul loro Dio e sulla ridicola credenza nella resurrezione. Quando tocca a Ottavio controbattere, non gli è difficile smontare, lui che è un convertito, le falsità (oggi diremmo le fake news) attribuite ai cristiani circa i loro supposti costumi depravati, e facendo leva sul fatto che i primi a non credere nelle divinità dell’Olimpo sono stati i migliori tra i pagani come filosofi e scienziati, passa ad illustrare la verità del Dio unico e provvidente.
Le argomentazioni di Ottavio si basano esclusivamente sulla autorevolezza della ragione, insita in ogni creatura umana. Egli non nomina affatto Gesù Cristo e non fa alcun accenno alla rivelazione del Vangelo. Gli basta, per ora, aver stimolato la mente del giovane interlocutore a prendere atto della vanità dei miti e delle superstizioni in cui confidava e, una volta sgombrata la sua mente da tanta inutile zavorra, aver preparato il terreno ad una successiva semina.
Tra l’altro, questo richiamo alla ragione – argomento non di poco conto in tempi come i nostri nei quali sembra predominare l’irrazionalità nei più svariati campi col suo corredo di paure e superstizioni – costituisce un ulteriore elemento di attualità dell’Ottavio.
Cecilio, finalmente convinto dall’appassionata disamina dell’amico, dichiara la resa: «Per quanto concerne il cuore del problema, accetto la provvidenza, cedo a Dio e riconosco la bontà dei cristiani, nelle cui fila ormai mi riconosco anch’io. Ancora tuttavia permangono in me alcune domande, non tali da zittire con la loro voce la verità che ho trovato, ma cui mi è necessario trovare una risposta, affinché io abbracci fino in fondo la nuova fede». A Minucio, l’autore che si era proposto come arbitro, non rimane che concludere, lieto di non dover più «adempiere a quell’odioso compito che è esprimere una sentenza».
E mentre il sole ormai al tramonto consiglia il rientro dalla passeggiata, ci sembra di vederli, i tre amici, avviarsi in città «lieti e sorridenti: Cecilio gioiva di aver creduto, Ottavio di aver vinto, io – conclude Minucio – che uno avesse creduto, e l’altro vinto».
Qualora sembri al lettore troppo repentina la “conversione” di Cecilio, ritengo da mettersi in conto la sua giovane età che di per sé è terreno propizio per ciò che appare così buono, vero e bello da indurre a ricredersi sul proprio errato giudizio.
Inoltre, illuminante mi sembra l’osservazione del filosofo e teologo roveretano Antonio Rosmini secondo cui «la verità di questa religione [cristiana] non si fonda soltanto sulla dimostrazione, ma di più sull’evidenza del lume interno, che Dio per grazia comunica, dando a chi crede una percezione di sé ed un criterio immediato di verità.
Chi visita oggi il parco archeologico di Ostia, uscendo da Porta Marina su quella che era l’antica spiaggia (l’attuale è spostata di alcuni chilometri a causa dei sedimenti alluvionali del Tevere) può notare i resti di un molo costruito in scaglioni di tufo e malta: forse il frangiflutti sul quale Marco Minucio Felice ambientò il suo dialogo?
Nel 387, quasi 200 anni dopo l’Ottavio, sostò ad Ostia il grande convertito Agostino di Tagaste, in attesa di imbarcarsi per l’Africa con la madre Monica. Anche a loro è legato un dialogo reso famoso dalle Confessioni – stavolta all’interno di una domus affacciata su un giardino –, che attinse vette paradisiache.